Ora, o mai più 

A Perugia è nato un Comitato per incoraggiare le persone immigrate a diventare protagoniste delle proprie lotte. Si chiama Ora: orientamento, reciprocità, azione

È già troppo tardi, ma adesso è davvero giunta l’Ora. Che le persone con background migratorio, persone che risiedono in Italia magari da decenni, che qua lavorano colmando spesso un vuoto occupazionale lasciato da noi “nativi”, che qua partoriscono e crescono figli lontano da una rete di cura familiare, nel senso più ampio del termine, che qua imparano ad annuire con riverenza quando si sentono chiedere conferma del fatto che la cucina italiana sia la migliore al mondo, e che molto molto altro… è giunta l’Ora, insomma, che queste persone diventino corpo e voce delle lotte che le riguardano. La parola Ora non rivendica soltanto il senso di urgenza che ha portato un gruppo di persone e alcuni enti, tra cui l’Unione sindacale di base (Usb), le associazioni Perugia solidale, Rift valley e Timbuktu, lo sportello Siamo, tutti attivi sul territorio, in forme diverse, nell’ambito dell’immigrazione, a riconoscersi mutualmente e a mettere insieme le loro professionalità e storie, con un primo presidio lo scorso febbraio e poi con la strutturazione del Comitato. Acronimo di orientamento, reciprocità e azione, infatti, la parola Ora è anche una chiara dichiarazione programmatica dell’omonimo Comitato: ché se dall’orientamento a una presa in carico che celi prassi di stampo coloniale il passo è breve, la reciprocità e l’azione implicano l’intento di sovvertire questo antico paradigma.

“Quello che intendiamo fare non è presentare il problema, ma portare il cambiamento. E il cambiamento passa solo attraverso il protagonismo delle comunità straniere, che qua in Italia manca del tutto. È una sfida difficile, dato che abbiamo a che fare con le persone più marginali della nostra società”. A parlare è Yacouba Saganogo, il tono duro di chi gli strumenti di lotta li maneggia nella quotidianità. Originario della Costa d’Avorio, Saganogo è il delegato nazionale di Usb immigrati, e da sindacalista ritiene che i protagonisti della rivoluzione di cui parla debbano essere lavoratrici e lavoratori. Lo scorso 29 maggio, in occasione della prima manifestazione indetta dal Comitato, era qui a Perugia a imbracciare il megafono di fronte alla Questura, luogo simbolo di un sistema che, con le persone straniere con ancor più noncuranza che con le altre, invece di garantire diritti, li nega. Al tavolo della vice questora aggiunta Erika Veronica Di Francesco, che al termine della manifestazione ha concesso un confronto ad alcuni rappresentanti del Comitato, si è presentato anche lui, anche se in quella sede, racconta, ha preferito lasciare la parola a chi poteva meglio snocciolare le criticità specifiche della gestione delle pratiche di immigrazione su questo territorio. Dalle interminabili file del mercoledì notte perché la propria richiesta d’asilo venga presa in carico, alla mancanza di un servizio di consulenza strutturale offerto dalla Questura, fino ad arrivare a quello che per i manifestanti rappresentava il tema più urgente: i tempi biblici, inaccettabili, per il rilascio del permesso di soggiorno, richiamato in rosso da uno striscione urlante “PERMESSO DI SOGGIORNO SUBITO”.

Gionata Baldaccini, operatore legale e fondatore di Siamo, servizio di consulenza in materia di immigrazione, intercultura e pratiche amministrative, si era detto, al termine dell’incontro, parzialmente soddisfatto: la dirigente aveva infatti espresso la volontà di rendere l’ufficio più accessibile e flessibile, di istituire un canale Pec diretto con il Comitato per ricevere segnalazioni prioritarie, di favorire momenti di formazione e aggiornamento, di ridurre i tempi di attesa per le diverse pratiche. “Palliativi, ma che ci avevano fatto concludere la giornata con sensazioni globalmente positive. A distanza di più di un mese, però”, puntualizza, “vediamo ancora che molte persone che presentano la richiesta di rinnovo o aggiornamento del permesso di soggiorno ricevono l’appuntamento per il fotosegnalamento a sei mesi, a cui se ne aggiungono in media dai due ai quattro per il rilascio del documento. Quasi un anno di attesa quando la normativa prevede un massimo di sessanta giorni. Addirittura, recentemente la Corte di Cassazione”, continua, “si è espressa affermando che, in assoluto, un procedimento amministrativo non può durare più di 180 giorni. Mi sembra che ancora non ci siamo”.

Trovarsi senza permesso di soggiorno, pur in possesso della ricevuta che ne attesti la richiesta di rilascio (quindi, in una condizione di “regolarità”), significa dannarsi tra difficoltà di accesso ai servizi, ambiguità burocratiche, precarietà lavorativa. Non concedere in tempi leciti, umani, dignitosi, un documento che determina la quotidianità e definisce l’identità delle persone straniere in Italia significa marginalizzarle più di quanto già non lo siano. “Hai presente la biopolitica di Faucault?”, mi chiede Alisia Fioriti, laureanda in antropologia, al termine della manifestazione. Per biopolitica si intende l’insieme di pratiche e strategie attraverso cui il potere esercita il controllo sulla vita e sui corpi, dalle politiche di sanità pubblica fino, come nel caso specifico, alla gestione delle popolazioni. Fioriti si è avvicinata al Comitato su suggerimento del suo relatore di tesi Jacopo Paffarini, ricercatore in diritto pubblico comparato e diritto delle migrazioni e co-fondatore di Perugia solidale. “Mi è stato proposto di svolgere una ricerca sull’attivismo migrante: un attivismo difficile, sia perché il mondo migrante è molto frammentato, sia perché”, spiega Fioriti, “si tratta di persone che non godono nemmeno di diritti civili, figuriamoci politici. Quando non puoi votare e non puoi candidarti l’unico modo per far sentire la tua voce è manifestare, ma spesso non fai neanche quello perché hai paura di esporti. Queste persone sono invisibili non perché lo siano davvero, ma perché di base sono silenziate”.

Ora queste voci le vuole desilenziare, raccogliere, diffondere, amplificare. Dalle strutture di accoglienza, dalle piazze, dai luoghi di lavoro, per farle riecheggiare sui social, nelle aule di università, tra i vicoli di una città che non fatica a definirsi internazionale e cosmopolita con gli stranieri che piacciono, ma poi di stranieri ce ne sono molti di più che, purtroppo, piacciono molto di meno, e le istanze di quelli fa ancora troppa fatica a considerarle. Come suggerisce il sottotitolo di ‘Chiama Ora!”, l’appuntamento radiofonico in programma ogni due martedì alle 21 nato dalla collaborazione del Comitato con Lautoradio, radio indipendente con sede in Corso Garibaldi, è una questione “di diritti negati e dignità umana”. Quando mi presento allo spazio radiofonico per ascoltare live l’ultima puntata prima della pausa estiva, c’è Aminata Tsimba, operatrice che si occupa di inserimento sociale e lavorativo originaria del Gabon, che, in un abito rosso, tono su tono con il poster che ritrae il Che sullo sfondo, conduce il collegamento con l’esperta ospite della serata, la sociolinguista e docente di comunicazione interculturale Gabriella Klein. Si parla di esclusione, inclusione e omissione delle persone straniere, in Italia, a livello di linguaggio. Tsimba racconta che in molte lingue africane gli aggettivi per descrivere i colori degli oggetti non corrispondono a quelli usati per definire la pelle delle persone, diversamente dalle lingue europee: “Purtroppo anni fa gli antropologi hanno classificato gli esseri umani in base al colore della pelle, ai due estremi i bianchi e i neri, in mezzo tutti gli altri. La scienza e il linguaggio non sono mai neutri: questa categorizzazione”, le risponde Klein, “è stata fatta per giustificare il colonialismo”. Questo articolo è nato per raccogliere un appello del Comitato: perché chiunque si riconosca in qualsiasi punto di questo spettro – ai due estremi i bianchi e i neri, in mezzo tutti gli altri -, che definisce un gradiente ben preciso di diritti negati, dignità umana e volume di voce, sappia che a Perugia è nata una nuova rete, che esiste un nuovo luogo di cura e condivisione, che ogni persona può farsi protagonista della propria lotta.