L’eredità delle mani

Un racconto tra memoria, materia e radici.
Luoghi di odori forti,
di mani sporche,
di silenzi pieni.

Dove argilla e farina vengono plasmate
e trasformate allo stesso modo
in nutrimento per l’anima e per il corpo.

Odore di terra bagnata
e pane appena sfornato.

Le dita affondano nella creta fresca,
ruvida e fredda,
così come nell’impasto tiepido,
denso, vivo.

Le mani si sporcano,
ma è una sporcizia buona,
che racconta.

La luce entra da una finestra alta,
taglia l’ombra in diagonale,
illumina i solchi,
le venature,
le briciole sparse.

Tutto parla,
anche il silenzio.
In quel contatto diretto
si intrecciano memoria, cura
e passione:
un sapere antico
che resta vivo,
che respira ancora.

Oggi quegli spazi si sono trasformati,
ma ogni angolo è rimasto fedele
al caos ordinato di chi lo ha abitato,
dove ogni traccia
racconta un’assenza
che continua ad essere presenza.

“L’eredità delle mani” non è solo una storia di famiglia.

È il racconto di ciò che resta quando scegliamo di non dimenticare.

 

Intervista a Davide, Museo della Memoria

L’idea di una mostra permanente nasce in realtà dal nonno, Giuseppe Magnini. Lui ha sempre desiderato uno spazio espositivo, che per vari motivi non è mai riuscito ad ottenere. Dopo la sua scomparsa, quindi, ho deciso di trasformare il suo laboratorio nel museo a lui dedicato. Per farlo ho dovuto innanzitutto realizzare un archivio per quantificare e organizzare non solo le opere, ma anche i calchi in gesso che era solito realizzare sui modelli in argilla (una precauzione per evitare di perdere il modellato – in caso di rottura – in fase di cottura). A dire la verità ne ho trovati veramente tanti, molti più di quanti ne stimassi inizialmente, tanto da doverli sistemare – come spazi alternativi – in piccoli “stalletti” ben areati nel piccolo orto che amava curare, nella parte nord del castello.

A questo luogo sono particolarmente legato. Oltre alla bellezza del posto in sé, sono sicuro che un avventore lo troverebbe curioso ed originale, visto che ogni angolo è punteggiato da materiali di “scarto” diversi per forma e colore, che il nonno accumulava e riutilizzava: da argille secche a terrecotte “fallate”, da vecchie matrici a oggettistica in ferro battuto in attesa di restauro. Insomma, per me è sempre stato lo specchio della sua filosofia di vita e dei suoi valori: l’alternanza del lavoro fisico e mentale, il riciclo (inteso come non-spreco), il rispetto della natura e l’intrinseca spiritualità che ne deriva.

Mi ricordo gli odori e i profumi che scandivano le varie fasi del lavoro. Il petricore dell’argilla umida, quello più tenue dell’argilla secca e il biscotto post cottura. Ma soprattutto il profumo della cera d’api che il nonno stendeva sulle terrecotte, come finitura. Un profumo che sa di casa, allora come oggi.

Un altro ricordo particolare al quale sono molto legato è l’accensione del forno, un forno piccolo, ”casalingo” che veniva attivato ogni due/tre mesi. Da una specie di forellino era possibile controllare la cottura, vedere se i “biscotti” era pronti: bastava alzare  il tappo dell’ugello e appoggiare l’occhio, come per guardale dentro l’obiettivo di una macchina fotografica. Ed ecco li il fuoco e le fiamme, ad oltre mille gradi. Ero un bambino curioso, avevo dai 5 ai 13 anni quando passavo il tempo con il nonno.

Quando adesso lavoro l’argilla o il gesso non uso i guanti, ho bisogno di sentire bene la mia “creatura”, i volumi, le forme, l’umidità… Una volta terminato il modellato poi, l’argilla deve perdere tutta l’acqua ed asciugare in maniera lenta e naturale. Di conseguenza, a seconda della grandezza delle opere, possono essere necessarie anche settimane, un lavoro che richiede tanta passione pazienza.

Il nonno, dal canto suo, faceva sembrare tutto semplice, a patto di seguire delle semplici regole : nell’arte – diceva – agire con creatività significa agire con competenza, e la competenza puo’ avere origine solo nella disciplina, non c’è improvvisazione. Di queste parole ho cercato di fare tesoro e come me, tutti coloro che lo hanno avuto come Maestro. Non a caso da queste parti, veniva chiamato “Il Professore” titolo del quale è andato molto fiero. All’attività artistica ha, infatti sempre affiancato quella di insegnante, che riteneva importantissima ed imprescindibile: tante sono le generazioni di corcianesi a cui ha trasmesso le basi dell’arte ma anche, e soprattutto l’amore ed il rispetto del territorio di cui un giorno sarebbero diventati custodi. Lui stesso, in un intervista, fu definito “Il Custode delle tradizioni, ed ora che non è più tra noi non resta che raccogliere la sua eredità nella speranza che il suo lavoro – ed i valori che esso rappresenta – non vengano perduti o dimenticati.

 

Intervista a Donatella e Simona, antica forneria

All’ingresso, poche parole in ceramica raccontano tutto:

“Si cuoce buon pane casalingo ove si spezzava il pane del cielo.”

Simona e Donatella, due donne dal sorriso tenace, ci hanno aperto la porta di questo spazio sospeso.
Ci camminano dentro con rispetto, come si fa con le cose che si sono amate a lungo. Il forno, al centro, è fermo. Ma la sua presenza ed il suo calore sono ancora percettibili.
Poi, quasi come se raccontarlo fosse ancora difficile, ci dicono com’è andata.

«L’ultima volta che lo abbiamo acceso è stata a settembre 2024», dice Donatella. «Io mi ricordo forse una serata di pizze».
«Sì», conferma Simona. «Abbiamo fatto delle pizze in teglia per un evento che era in piazza, per la nostra piazza e per la nostra gente».

Dopo quella serata, il forno ha smesso di funzionare.
«Ci è dispiaciuto quando ci siamo rese conto che, dopo sessanta anni, non funzionava più», dice Donatella. «La prima cosa che abbiamo pensato, quando il tecnico ci ha detto che non si poteva più aggiustare, è stata: dobbiamo comprarne uno nuovo. Abbiamo chiesto molti preventivi, ma erano tutti molto esosi. E quindi, piano piano, si è pensato a una soluzione diversa. L’idea non era più quella di aggiustare, ma di togliere, di cambiare, di chiudere».
«Perché noi già avevamo il pensiero di chiudere», continua. «Meno famiglie nel paese, meno bambini, il nascere dei grandi supermercati… il malfunzionamento del grande forno è stato l’evento scatenante».

Ma dentro quel laboratorio, tutto è ancora al suo posto.
C’è la spianatoia di legno, levigata dal tempo, che Simona non riesce a lasciare:
«Ci hanno lavorato mia madre, mio padre, i miei nonni. È comoda, perfetta. Ma soprattutto è piena della nostra energia. La terrò. Non so dove, ma la terrò».
C’è la piccola impastatrice di Donatella, usata sempre da lei, con la cura di chi conosce ogni rumore, ogni ritmo.

Ci sono le ciotole di metallo, le pale di legno appoggiate al muro, e un ricettario scritto a mano, sporco di farina e pieno di appunti.
«Per un periodo abbiamo provato anche le pale elettriche», dice Donatella. «Dovevano aiutarci, ma finivano per complicare il lavoro. Quelle di legno chiedono attenzione, ma sono vere. Le abbiamo sempre preferite».

E poi ci sono le teglie, impilate come sempre. Le stesse che, ogni Pasqua, si riempivano di torte portate da tutto il paese. «Era un via vai continuo», raccontano. «Giorno e notte, le persone passavano di qui. L’odore del formaggio invadeva i vicoli, restava nell’aria per giorni». Le torte non avevano nomi. Quando si andavano a ritirare, ognuno cercava quella più bella. E se la propria era venuta male? «Era colpa del forno!», dicono sorridendo.

Oggi il forno è fermo. Il suo futuro è incerto.
«Forse andrebbe demolito», dice Simona. «Fare spazio. Ma spazio per cosa?»
Donatella, invece, ci pensa in un altro modo:
«Forse dovrebbe restare lì, visibile. Per raccontare. Per far capire a chi entra da dove veniamo».

E forse è proprio questo il senso di tutto.

Perché ci sono luoghi che, anche se smettono di funzionare, non smettono mai di dire qualcosa.

Janeth Guaillas e Giovanni Castellani