Fotografia. Un denso raccontare

Memoria, evasione, verità. Le infinite possibilità del viaggio nel laboratorio di Tralci

I luoghi sono chi li abita: è questo lo stimolo che ha avviato un’esperienza di attraversamento del linguaggio fotografico rivelatasi presto altisonante in quanto a partecipazione e dedizione profuse dagli sperimentatori. Come tutte le occasioni di incontro con un qualsiasi lessico dell’arte, è stato un lento e rinvigorente corteggiamento di risposta al bisogno umano di comunicare dando forma alla vita mentale come al vissuto emotivo, che è il senso ultimo di ogni forma espressiva.

L’argomento aleggiava ormai da tempo fra le ipotesi di pratiche nuove in cui cimentarmi, tanto da diventare un richiamo di avvicinamento, una tendenza irresistibile. Spulciando in rete mi sono così imbattuta nella notizia di un laboratorio di “fotografia narrativa” e, da inguaribile appassionata di scrittura – strumento personale di racconto ed esplorazione di sé – mi si è accesa una lampadina sul binomio fotografia-scrittura. Ho intuito l’urgenza, prima ancora che la volontà, di scoprire quali legami strutturino questo sistema poiché entrambe le componenti, per ragioni non così distanti, hanno agìto in me un vero e proprio radicamento affettivo. Il secondo termine rappresenta una modalità d’esistenza, una formula per riconoscersi presenti a se stessi; il primo, la fotografia, dal canto suo è un campo di investigazione rispetto a cui si è concretizzata la possibilità di fare esperienze attive “autoteliche”, ossia intrinsecamente motivanti. Condotti dalla guida professionale ed appassionata degli esperti Antonello Turchetti e David Montyel, io e i miei compagni di questo viaggio rivelatore abbiamo potuto scandagliare e riflettere, tra gli altri aspetti, su quel quid legato alla modalità di restituzione dei messaggi afferenti al senso dell’ e dall’ umano che è propria dell’espressione fotografica, vale a dire l’immediatezza. Un sentire del tutto inedito si è fatto strada nella dimensione motivazionale di noi partecipanti, radicandosi nella forma di una curiosità intellettuale sempre più vivida via via che si facesse menzione dei primi nomi di riferimento (da Luigi Ghirri a Paolo Pellegrin, a Fabio Moscatelli a Rinko Kawauchi) e si mobilitassero strumenti vari di lettura, indicazioni tecniche e attitudinali. La fotografia è ora più che mai letta e realizzata dal gruppo come canale comunicativo irrinunciabile. Fotografia e scrittura si toccano, si compensano e/o dispensano l’un l’altra. Raccontare per mezzo della fotografia non solo è efficace allo scopo comunicativo ma rappresenta anche il modus operandi più funzionale (e possibilmente preliminare) a ogni potenzialità espressiva. Scattare si traduce nell’atto speculativo di immortalare, inteso nel suo senso etimologico: l’oggetto destinatario è stato così sottratto allo scorrere del tempo e – dunque – alla morte. La “materia fotografica” perdura, per quanto immobile ed estinto appaia il suo contenuto. Franchezza e inesauribilità di lettura ne sono allora tratti distintivi. Fotografare è rinunciare consapevolmente alla neutralità, è (ri-)costruire partendo da un’indagine antropologica che diventa vera e propria ricerca sperimentale e psico-umanistica, per la quale è opportuno un atteggiamento di flessibilità, versatilità e transdisciplinarietà.

L’uomo avverte l’impellenza di raccontarsi e, altrettanto istintivamente, si predispone a ricevere le narrazioni altrui: è un orientamento che ha a che fare con la natura socio-relazionale di ogni esperienza di apprendimento. La narrazione è la modalità immersiva con cui si condividono storie per la negoziazione di significati: è la progettazione cooperativa di “orizzonti” di senso, declinabili in termini di identità e comunità. Ecco che la riflessione casca sull’ulteriore, innegabile valenza pedagogico-educativa della fotografia intesa come strumento operativo, funzionale a quel macro-obiettivo posto in essere da una società contemporanea governata dalle leggi della complessità: realizzare – a livello personale e sociale – una collettività unitaria e plurale allo stesso tempo. Un racconto a struttura aperta, accompagnato da una postura discreta e comunicativamente valida valorizzerà il vissuto che sarà stato “donato” e restituirà dignità alla storia. Non solo: si ergeranno dei ponti fra le immagini-parole di ognuno, con un risultato di risonanza e ipersensibilizzazione. L’eteroracconto confluirà nell’autoracconto: (r-)accogliere la storia dell’altro avrà come risultante imprescindibile entrare in relazione con la propria. Con uno sguardo a fisarmonica, l’occhio si scopre capace di cogliere dettagli autoconclusivi; sperimenta l’opportunità di dare un “taglio poetico” all’immagine fissata, di farne uno slancio d’inventiva poiché scatti che suggeriscono più che mostrare assumono un valore fortemente evocativo, stimolando il pensiero immaginativo e creativo.

Minimalismo, gioco di contrasti, di luci e ombre sono accorgimenti strategici con cui guidare il ricevente attraverso una lettura dell’immagine sincretica e focalizzata allo stesso tempo, con un effetto di sospensione temporale e di ogni canone. È un viaggiare, come scrive Pier Paolo Pasolini nella sua postfazione alle Città invisibili di Italo Calvino, “senza avere meta [..] secondo un andare per andare che diventa un’eco di ambiguità [..], surrealismo o relativismo visionario, confrontato con infinite possibilità diverse”. Le storie prendono forma tanto dai luoghi connotati quanto da quelli senza coordinate identificative, la cui aspecificità li rende universalmente riconoscibili. Fotografare il “non-luogo” che è il “qualsiasi-luogo” calviniano vuol dire aprire spazi ancora più densi di impronte relazionali.

Erika Gallo