La Biblioteca Umana

La Biblioteca Umana

Il progetto diffuso in settanta paesi in cui le persone soggette alla discriminazione si trasformano in “libri aperti”

Qualche tempo fa mi è capitato di entrare nella Millennium Library, la splendida biblioteca pubblica di Norwich, e di trovarmi davanti una scritta – “Human Library” (Biblioteca Umana) –, posta accanto a uno stand affollato. Su un tabellone, un invito alla lettura di un elenco di titoli che, in barba al Circolo Pickwick e Piccole Donne, includevano soltanto delle diciture fastidiose, decisamente politically uncorrect. Una folla diversissima era dispersa su delle sedie disposte l’una di fronte all’altra, a coppie, a chiacchierare con l’imbarazzo e la curiosità tipica dei dialoghi tra sconosciuti. Mi è subito stato chiesto di avvicinarmi allo sportello informazioni e di iscrivermi per ricevere una tessera che, come in una vera biblioteca, mi avrebbe permesso di prendere in prestito i “libri” che desideravo. I libri da sfogliare, in questo caso, erano però delle persone, e la lettura consisteva in una conversazione della durata di mezz’ora dedicata al loro “titolo”, l’etichetta che la società affibbia loro: ‘gay’, ‘transessuale donna’, ‘transessuale uomo’, ‘persona affetta da disordini alimentari’, ‘disabile’, ‘rifugiato’.

Nick Little è uno dei direttori della Human Library UK e mi ha spiegato nel dettaglio in cosa consiste quest’iniziativa, nata dalla proposta che Oz Osborne (un altro dei direttori del movimento) ha lanciato nel 2008, spinto dalla voglia di replicare il progetto coniato in Danimarca otto anni prima: «Lo scopo principale del progetto è di cambiare le percezioni pregiudiziali che la società ha di alcune categorie. Si tratta di un movimento provocatorio che vuole portare la gente fuori dalla propria comfort zone, invitandola a parlare con qualcuno con cui il confronto costituisce una sfida. In quanto organizzatori non suggeriamo mai quale “libro” prendere in prestito, non sappiamo nulla sulla conversazione che si svolgerà. Ci limitiamo semplicemente a facilitare un dialogo che, altrimenti, non si verificherebbe».

Secondo Nick, ovunque ci sarebbe bisogno di una “Biblioteca umana”: «La necessità di un confronto con l’altro esiste in qualunque luogo. Quello che è interessante è che quando all’inizio indicavamo discriminazione e stereotipi come i motivi per cui organizzavamo questi eventi, le persone si opponevano in massa a quest’affermazione. Non accettavano l’idea che la società in cui viviamo fosse infarcita di pregiudizi, ne negava l’esistenza nell’epoca del progressismo. Negli ultimi anni, invece, ho notato che si è creata una maggiore consapevolezza. Forse anche grazie a noi».

Il primo passaggio, insomma, è quello di riconoscere di possedere un bagaglio di stereotipi che modifica la nostra percezione della realtà esterna: «Avere dei preconcetti non significa che devi necessariamente cambiarli o che sei una brutta persona. Del resto, esistono pure dei pregiudizi positivi a condizionare comportamenti e opinioni. Io, per esempio, ne ho uno sul Norwich Football Club», ha chiuso, con un sorriso.

Un’altra caratteristica interessante del progetto è che questo non si propone di favorire delle conversazioni piacevoli, ma semplicemente rispettose: «Il nostro obiettivo è che chi partecipa ponga delle domande scomode, ma sempre mantenendo un certo rispetto nei confronti dell’altro. Prima di ogni lettura/conversazione, infatti, i volontari della “Human Library” pronunciano di fronte ai dialoganti i “Diritti del libro e del lettore”: il “libro”, infatti, ha il diritto a non rispondere a determinate domande, ed entrambi hanno la possibilità di fermare la conversazione in qualunque momento. In otto anni abbiamo permesso si svolgessero più di novecento “letture” e abbiamo assistito solo a due o tre dialoghi spiacevoli e negativi».

A molti il limite posto dai trenta minuti potrebbe sembrare eccessivamente ridotto per scardinare una molla del pensiero: «Penso che un contatto prolungato attraverso eventi di lunga durata sia il modo migliore per abbattere il muro dei pregiudizi, ma “la Human Library” usa una formula diversa con uno scopo ben preciso. Quest’iniziativa non si propone di favorire un legame tra persone che la pensano in modo diverso, ma vuole essere una scorciatoia che permette ai partecipanti di porre delle domande dirette a qualcuno che avverte come diverso. Se organizzassimo un’attività di giardinaggio atta a coinvolgere transessuali e integralisti cattolici per una giornata intera, è forse possibile che questi finiscano per riconoscersi simili, aldilà di ogni etichetta… Tuttavia, ritengo sarebbe altamente improbabile che il cattolico riuscisse a prendere il coraggio di chiedere all’altro se ha mai pensato di farsi un’operazione per cambiare sesso. Secondo me, il tempo stringato di una mezz’ora è sufficiente a far sorgere dei quesiti e a scatenare uno shock nel “lettore”. Una volta, per esempio, un signore anziano ha richiesto in prestito il “libro” di un ragazzo gay. Era da poco stata introdotta la legge dei matrimoni tra omosessuali, e quest’uomo affermava di avere delle difficoltà ad accettare un’unione di questo tipo. Alla fine della conversazione, però, il signore è tornato indietro per ringraziarci e ha dichiarato di non aver cambiato idea, ma di aver capito di dover scendere a compromessi con il mondo che stava cambiando, e che l’amore tra due persone dello stesso sesso era qualcosa di possibile».

Ci si potrebbe chiedere se l’utilizzo di alcuni titoli-pregiudizi non ostacolino l’avvicinamento tra “lettore” e “libro”: «Il “titolo” di ogni libro è fabbricato come una provocazione, tesa a suscitare una reazione. Il risultato che vorremmo ottenere è che il “lettore”, alla fine della conversazione, consideri l’etichetta irrilevante. Abbiamo pensato a lungo a come presentare la nostra lista di “titoli”, valutando anche di usare delle parole insensate che non alludessero per nulla alla persona che vi stava dietro, o di creare un catalogo in cui inserivamo una piccola descrizione dei libri-persone e della loro problematica. Poi, però, ci siamo accorti che era necessario mostrare con chiarezza l’argomento della conversazione che si sarebbe svolta. Inoltre, abbiamo compreso quanto fosse importante che, al momento delle presentazioni, l’unica cosa nota ai partecipanti fosse solo il “titolo”, il pregiudizio. In questo modo avremmo dato ai “lettori” la possibilità di pensare prima all’etichetta e poi alla persona che convive con quell’etichetta, separandole di netto».

La “Human Library”, inoltre, è suddivisa allo stesso modo di una vera biblioteca: oltre all’area di lettura/conversazione e allo sportello informativo, esiste infatti la zona chiamata “Bookshelf” (Libreria), in cui i “libri” attendono di essere presi in prestito. È lì che si mescola una realtà molteplice e viva di soggetti che desiderano condividere la propria esperienza e correggere il giudizio altrui, raccontando la propria storia.
«In effetti, lo spazio della “Libreria” offre spunti di riflessione altrettanto significativi per il progetto Human Library. Chiunque penserebbe che chi ha vissuto episodi di discriminazione si trovi nella condizione di empatizzare più facilmente con persone che soffrono, o hanno sofferto, situazioni simili, ma on è assolutamente così. Ciò che resta è che questo spazio è comunque di grande confronto. Un esempio: Joe, uno dei nostri “libri”, è un rifugiato della Germania nazista. Sopravvissuto all’Olocausto, ha visto i suoi parenti morire in un campo di concentramento, per poi fuggire a quattordici anni verso l’Inghilterra. Nell’area della “Libreria” alcuni “libri”, dopo aver ascoltato la sua storia, esprimevano la propria opinione sul Nazismo; ognuna di quelle persone avrebbe avuto un motivo per essere perseguitato da quel regime, quindi i loro toni erano naturalmente molto alterati, quasi furiosi. Sono rimasto letteralmente scioccato quando ho sentito Joe interromperli e ammonirli, dicendo loro di non fare l’errore di pensare che tutto quello che aveva fatto Hitler fosse un male. La sua intera famiglia era stata uccisa a causa di quell’uomo, ma lui, in breve, ha esortato gli altri a non pre-giudicare Hitler. E questa, per me, è la definizione di Human Library».

Secondo il direttore dell’iniziativa, questa biblioteca fatta di persone è un tentativo di riconoscere l’esistenza di pregiudizi e di lentamente smantellarli, ma non può eliminare del tutto un problema che è sociale e, in definitiva, umano: «Questo progetto agisce direttamente sul campo della diversità ed è l’unica attività che conosco ad essere davvero inclusiva. Le persone che hanno vissuto esperienze terribili diventano attivisti e si muovono per un cambiamento sociale, che riguarda loro stessi e gli altri. Ma la discriminazione è insita nella natura dell’uomo e penso sia difficile che questa, un giorno, scompaia».

Testo di Ivana Finocchiaro