Nuovi paesaggi alimentari

Un viaggio tra i market etnici della città

“Ma lo sai come si usa quello?”, irrompe Robi, originario del Camerun, notandomi mentre mi aggiro tra gli scaffali del Tropical Market Center di via Campo di Marte con una busta di karkadè stretta al petto a mo’ di scudo. Non c’è niente da cui quello scudo possa difendermi, neanche da domande come questa, più premurose che sfacciate: Robi fa spesa lì frequentemente, come me, e immagino che come me raramente si sia imbattuto in clienti bianchi che conoscono gli usi del karkadè. Altrimenti noto come bissap, il karkadè è il carnoso calice del fiore dell’hibiscus sabdariffa, da cui si ricavano bevande dissetanti e dal gusto acidulo largamente diffuse in Africa occidentale, e a Perugia lo si trova qui, a pochi passi dalla stazione di Fontivegge, in questo negozio caotico ed eclettico dove a darci il benvenuto sono le palme disegnate ai due lati dell’insegna bianca che si aprono per noi come un sipario. Qui Linda, nigeriana, si conquista la simpatia dei suoi clienti accogliendoli con un invariabile “Ciao bello/a, come va?” e guidandoli con indolente pazienza nella scelta del giusto grado di maturazione del platano e di piccantezza del peperoncino africano. Dal 2013 trascorre tra le tre corsie del negozio sei giorni su sette, instancabile, mentre i sei figli la osservano dall’interno dei cuori in cui sono ritratti nel quadro appeso dietro la cassa. Non bada ai convenevoli, Linda, e quando le chiedo se posso rimanere un po’ con lei per farle qualche foto, mi ribatte divertita: “Ma lo vedi che devo lavorare?”.

A inizio anni duemila l’antropologa Alessandra Guigoni elaborava il concetto di foodscape, ossia di come determinati processi economici, politici, sociali e culturali concorrano alla composizione del paesaggio alimentare di un luogo. In quegli anni la composizione demografica di Perugia era ben diversa da quella di oggi, con gli stranieri residenti che non raggiungevano il 5% della popolazione totale (oggi sono invece più del 12%). Linda e suo marito hanno contribuito alla trasformazione del foodscape di Fontivegge, e non sono i soli: la signora dell’alimentari rumeno li prende a braccetto da pochi metri più in là, mentre gli strizzano l’occhio, dall’altro lato della ferrovia, Ali e Kamran, due cugini originari di Islamabad, che gestiscono dal 2018 l’Asia Africa Mini Market di via del Macello nei locali dove prima sorgevano un negozio di parrucchiere e lo storico bar Due Lire.

Tra i minimarket che visito riconosco delle caratteristiche in comune: la merce in vendita – da prodotti alimentari a oggettistica per la casa, passando per frutta, verdura e carne fresca – è destinata a tutto il mondo, indipendentemente dal Paese di origine dell’esercente, ed è organizzata secondo una logica più geografica che semantica. I ripiani africani mettono in mostra olio di palma e farina di manioca, quelli sudamericani latte condensato e machica; variopinti tajine e bicchierini da tè giacciono sugli scaffali nordafricani, noodles e salsa di soia su quelli asiatici. Yoki, Maggi, Royal, Ghana Heritage e Alibaba sono i nomi delle marche più rappresentate, e me li immagino stampati eccentricamente su cartelloni pubblicitari di un aeroporto lontano, a sancire l’inizio di un bramato viaggio per me e l’atteso ritorno a casa per la maggior parte degli altri clienti.

A questa standardizzazione globalizzata il Magasin Romanescu di via Mentana fa eccezione, e la bandiera rumena come insegna, che non potrà sfuggire agli automobilisti diretti verso i semafori di Prepo, lo dimostra orgogliosamente. Qui i prodotti provengono quasi esclusivamente dalla Romania o da altri Paesi dell’est Europa. Ion, il titolare del negozio, mi spiega deciso: “Sono circondato da altri negozi che vendono di tutto. Io, però, non vendo tanto per vendere”. Ion è in Italia dagli anni Novanta, ha aperto l’attività nel 2011, e da allora ogni settimana va a Roma in cerca di nuovi prodotti da sistemare tra i ripiani del suo negozio dopo averli meticolosamente etichettati con la traduzione italiana come richiesto dalla normativa. Mentre Ion parla con me, una cliente lo interrompe per chiedergli da dove vengano i pomodori, mentre altri attendono il loro turno discutendo di fatti di cronaca locale. “Sono per lo più rumeni, moldavi, ucraini, russi e bulgari, ma – aggiunge – da qualche tempo vantiamo anche un buon numero di clienti dell’Ecuador: trovano, qui, un formaggio di mucca nostro che possono cucinare alla piastra come fanno loro”.

Il motivo per cui Fontivegge sia l’epicentro di questo eccitante terremoto multietnico è evidente. “L’offerta nasce dove c’è domanda” è la nozione elementare di marketing con cui Youssef, giovane imprenditore di origini marocchine che gestisce da quasi un anno l’Ali Baba Food-Macelleria Halal di via Settevalli, risponde alle domande che gli porgo per rompere il ghiaccio. Ci vuole un po’ di tempo e molta dedizione prima che lui riesca a mettere da parte i sospetti iniziali, ma alla fine cede al desiderio di narrare le fortune del negozio e, appoggiato sul banco dei congelati, si lascia intervistare mentre decine di varietà di cous cous e di tè impilate sullo scaffale dietro di lui gli incorniciano il viso. “Gli italiani sporgono la testa dalla vetrina, si vede che sono incuriositi, eppure non entrano: è come se per loro fosse haram (vietato, ndr)”, mi dice, confermando la mia sensazione. La clientela, in ogni caso, non gli manca: Darling e José, originari dell’Ecuador, acquistano qui platano e coriandolo, Elizabeth la machica, Moussa e Lassad, tunisini, la carne halal. Mi fermo a parlare con gli ultimi due, loro sorseggiano una Peroni e io addento vorace il pane arabo appena acquistato: il loro code-switching tra italiano e tunisino nel discutere su quale sia la miglior marca di cous cous made in Tunisia mi cattura. E, relativamente alla carne halal, mi insegnano: “L’animale deve venire sgozzato in modo che tutto il sangue fuoriesca dal corpo: solo così la carne può conservare il proprio colore e una prolungata freschezza”.

La conversazione sulla carne halal, che nella mia testa si colloca in quella zona grigia in cui precetti religiosi e ragioni pratiche si fondono nel definire le abitudini alimentari di un gruppo di persone, mi fa venire in mente le parole dello storico dell’alimentazione Massimo Montanari, che nel suo libro Il cibo come cultura scrive che “il cibo è cultura quando si produce, quando si prepara e quando si consuma”. Aggiungerei che il cibo è cultura anche quando lo si acquista, e la fortuna dei minimarket etnici lo dimostra. Se è vero, infatti, che la trasformazione del foodscape riguarda anche i supermercati tradizionali, sempre più esposti a contaminazioni esotiche, è ancor più innegabile che, soprattutto per le popolazioni migranti, le scelte di acquisto alimentare sono strettamente connesse a meccanismi di autoidentificazione sociale, e che persino il più fornito scaffale di alimenti esotici di un supermercato tradizionale non potrà mai assolvere al ruolo che un piccolo e variopinto minimarket “etnico” detiene come luogo di svago, di aggregazione sociale e, soprattutto, di attivazione di una memoria “migrante” collettiva.

Articolo e foto di Beatrice Depretis