Human Beings: l’interculturalità di Perugia va in scena. Intervista a Danilo Cremonte

Come possiamo raccontare Perugia all’Europa?

“Luoghi Comuni” partecipa a un progetto europeo che coinvolge quattro realtà provenienti da tutto il continente. Si chiama Sirius4all, e tra marzo del 2024 e l’estate del 2025 ci porterà a Sofia, Copenaghen e Berlino. Per cominciare abbiamo deciso di intervistare donne e uomini che per le loro traiettorie personali riteniamo abbiano punti di vista significativi sulla città che Perugia è ed è diventata negli ultimi dieci anni. Persone impegnate nel mondo della cultura, del sociale, del lavoro, della politica, dei servizi al cittadino. Tasselli di un mosaico attraverso il quale cercheremo di fornire una rappresentazione eterogenea di Perugia a tutti coloro che incroceranno il nostro cammino nell’ambito di Sirius4all.

 

Dal belvedere di piazza Italia l’edificio della Fondazione Sant’Anna è poco più che una comparsa, seminascosta dalle chiome degli alberi e messa all’angolo dai maestosi campanili di San Domenico e San Pietro. Su viale Roma la sua elegante facciata neoclassica diventa protagonista: l’imponente portone si apre su un corridoio voltato attraverso cui si accede a un bellissimo chiostro, cuore di un complesso nato nella prima metà del 1200 come convento femminile e oggi sede di due istituti comprensivi e di diverse associazioni culturali. Qui Danilo Cremonte, presidente dell’associazione Smascherati!, milanese di nascita ma perugino da tutta la vita, si muove con la naturalezza di chi si sente a casa propria. È infatti in questi spazi che si tengono le attività del laboratorio teatrale interculturale Human Beings, di cui Cremonte, classe 1955, è direttore artistico da trenta anni.

Human Beings nasce nel 1994 in seno all’associazione Smascherati! allo scopo di far incontrare tra loro le molte anime di Perugia, città tradizionalmente interculturale. Da dove origina questo suo desiderio? 

“Sono cresciuto in via Pozzo Campana, la strada che unisce via Ulisse Rocchi a via Bartolo, a pochi metri dall’Università per Stranieri. Mio padre insegnava lì, mia madre era tedesca. Erano gli anni Sessanta, Perugia era un paesone, e io stavo fuori dalla mattina alla sera a giocare in piazzetta. Devo ai miei genitori questo piacere di conoscere, anche se non ho viaggiato molto. Tra i miei ricordi di bambino ci sono delle donne indiane, i loro vestiti colorati, i loro profumi, a casa a volte si mangiavano dei cibi cucinati da loro. Sono stato educato, se non altro, alla curiosità”.

Perugia era un paesone ma anche una città internazionale, quando l’Italia era ancora terra di sola emigrazione. 

“Sì, ma era una città che mi sembrava non facesse niente per raccontare, e per valorizzare, questa ricchezza culturale e umana che c’era e che c’è sempre stata, grazie all’Università per Stranieri. Questo mi sembrava assurdo e triste. Ed è stato uno dei fattori che ha portato alla nascita di Human Beings”.

E l’altro? 

“Nei primi anni Novanta l’Italia diventò un paese di immigrazione. Un giorno lessi una delibera regionale che invitava a vedere il fenomeno in chiave positiva: allora mi sembrava una visione controtendenza, ma che ritenevo giusta. Questo fu il pretesto per far partire l’iniziativa. Ai laboratori di teatro e danza che stavamo organizzando con Smascherati! già partecipavano molti stranieri, studenti o artisti, che vivevano a Perugia o in altre parti d’Italia: mi ero accorto di quanto la loro presenza fosse una risorsa, semplicemente perché portavano un altro punto di vista”. 

Da dove venivano? 

“All’inizio erano perlopiù europei; c’era qualche sudamericano, dal Cile, dal Brasile, dal Messico, e ricordo con grande piacere una persona africana, l’unica: era un giornalista perseguitato nel suo Paese e riconosciuto qui come rifugiato. Poi abbiamo avuto gli egiziani: registi, attori, scenografi, ma anche musicisti e pittori titolari di una borsa di studio per uno scambio culturale di un anno a Roma, preceduto da un trimestre di lingua italiana all’Università per Stranieri. Alcuni, alla fine, invece di andare a Roma decidevano di rimanere a Perugia”. 

Piano piano, dal 1989 a oggi, la composizione della popolazione straniera di Perugia si è andata trasformando. Come si è riflettuto questo sui suoi laboratori? 

“Intorno alla fine degli anni Novanta sono cominciati ad arrivare i primi studenti dall’Europa dell’est, via via sempre più numerosi: ricordo ancora le difficoltà burocratiche per farli rimanere, i visti… Venivano dalla Romania, dalla Polonia. Ma fu l’arrivo dei cinesi, soprattutto in seguito all’avvio dei programmi di scambio Marco Polo (2005) e Turandot (2009), a segnare una svolta: gli equilibri del laboratorio sono stati sconvolti dalla loro diversa sensibilità, cultura, dalle loro conoscenze nel campo della danza. Quindi è stata la volta dei coreani, studenti del Conservatorio o di lingua italiana. E infine, negli ultimi anni, moltissime persone da diversi paesi dell’Africa, dal Bangladesh, dal Pakistan, dall’Afghanistan”.

Questi ultimi erano, per la maggior parte, richiedenti asilo e titolari di protezione, a cui avete rivolto, dal 2011, un progetto mirato. 

“La nascita di Teatro Rifugio ha coinciso con la guerra in Libia, e con quello che è successo in seguito, la cosiddetta emergenza sbarchi. Ho imparato tanto dall’esperienza diretta con persone che vengono qui da altri paesi non per studiare e non con i mezzi a cui eravamo abituati prima, ma in un barcone, o a piedi. Teatro Rifugio funziona così: i primi incontri del laboratorio si tengono nelle residenze – nei luoghi dove vivono i richiedenti asilo o dove seguono i corsi di italiano. Dopo questi incontri, chi vuole può continuare con i laboratori di Human Beings. Il finanziamento principale proviene dall’otto per mille della Chiesa Valdese. A Human Beings ci sono uomini e donne; persone giovani, adulte, anziane. A Teatro Rifugio, invece, i partecipanti sono perlopiù giovani uomini.  Quest’anno, poi, partiremo con Matria, un laboratorio specifico solo per donne”.

Human Beings, Teatro Rifugio, a breve Matria. E ancora Host, un laboratorio aperto ai residenti di Ponte Felcino. In trenta anni hanno preso parte alle vostre attività quasi 4000 persone di circa 80 nazionalità diverse. Promuovete a Perugia un’ “interculturalità silenziosa e pratica”, come l’ha definita Moira de Grisogono nella sua tesi. Come vengono accolte queste azioni dalle istituzioni locali? 

“Non ho mai avuto un rapporto stretto con le amministrazioni, ma negli ultimi anni ho percepito un importante cambiamento. C’è, in generale, una grande difficoltà nell’organizzare eventi culturali. Io non ero entusiasta delle amministrazioni precedenti, ma è innegabile che ci fosse un po’ più di fermento: più spazio per iniziative culturali, anche per quanto riguarda il teatro e rispetto alla nostra attività. Non che siamo mai stati sostenuti, ma perlomeno c’era un dialogo”. 

E adesso? 

“Ora mi sembra che ci sia una certa povertà culturale, e che le istituzioni e la cultura dominante tendano a indirizzare la popolazione verso altri interessi e altri bisogni. E poi, mi sembra che ci sia un problema di comunicazione, e invece le iniziative culturali bisogna saperle proporre. Però vedo anche cose molto belle che nascono nei quartieri: penso a Popup in Piazza Birago, a Corso Garibaldi, a via della Viola. È giusto che queste cose nascano dal basso, dalle associazioni. Le istituzioni, però, dovrebbero supportarle”.

Cos’è l’Europa, oggi, vista dall’interno di uno dei suoi laboratori? 

“Se guardo l’Europa, la guardo con gli occhi di un richiedente asilo. È una fortezza. È sempre più respingente, non accogliente. Questa è l’Europa che non mi piace. Negli ultimi anni ho avuto la possibilità di partecipare a diversi progetti Erasmus: è stato interessante lavorare con partner europei, osservare la loro reazione nel vedere il lavoro che facciamo. Questa è l’Europa che mi piace: quella degli scambi, delle opportunità. Anche questa Europa, però, per un richiedente asilo è diversa: non è detto che ci si possa spostare tra stati membri, questa possibilità dipende dallo status che si ottiene”.

E Perugia, vista da fuori? 

“Vivo in campagna da dieci anni, ma ho conosciuto tanti studenti che vengono qui per fare l’Erasmus e decidono di prolungare perché apprezzano alcuni aspetti di Perugia, tra cui le dimensioni. Certo, parliamo del centro, magari di un centro allargato. Se si esce dal centro, la situazione a livello di servizi diventa disastrosa. La sera non ci sono autobus. Eppure Perugia potrebbe essere un modello per la storia che ha, per la sua importante presenza straniera, per le università. Vanno create nuove forme di relazione tra studenti stranieri e la città. Spesso, invece, queste persone rimangono nei loro ghetti. Lo stesso succede ai richiedenti asilo, e alle seconde generazioni. È un peccato se non si rompono questi confini. Ci vuole un gran lavoro, bisogna creare le condizioni affinché questi incontri avvengano. Allora sì che Perugia potrebbe essere una città europea a tutti gli effetti”.

 

Testo di Beatrice Depretis

 Foto di Mohammad Ali Montaseri