Se il diritto alla cura diventa una questione privata. Intervista a Giulia Gamboni

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Presidente di Anlaids Umbria e specializzata in malattie infettive presso l’Ospedale Santa Maria della Misericordia di Perugia, Giulia Gamboni viene da un trascorso come medica di medicina generale, un corso in antropologia medica con focus sulla salute globale e un lungo periodo di tirocinio presso l’ambulatorio migranti di via XIV Settembre. Originaria di Fano, racconta di aver scelto il capoluogo umbro per gli studi universitari, quasi venti anni fa, proprio per la fama internazionale di cui godeva la città. Il suo sguardo sulla sanità del Perugino ha il privilegio di espandersi a raggiera, partendo dall’ex Silvestrini e diramandosi sui diversi servizi socio-sanitari del territorio. Nel mezzo, a facilitare un percorso spesso incerto e tortuoso, le diverse realtà associative attive nella zona.

“Qui a Perugia l’ospedale vive un isolamento rispetto alla tipologia di cure e all’approccio dei servizi territoriali, è sempre un po’ distaccato, e periferico. Penso però che questa sia una caratteristica nazionale, più che locale; la comunicazione con il territorio è spesso mediata dalla presenza di associazioni e dalla loro possibilità di rappresentare una realtà tale da sostituire i servizi. Anche questo aspetto penso che sia molto italiano, e riguarda diversi settori: da quello dell’accoglienza migranti ad altri di assistenza e cura. Sono realtà che svolgono un lavoro che l’ospedale non può fare, per mancanza di tempo, risorse, esperienza”.

Può farci un esempio?

“Nel mediare con l’anagrafe o con gli altri uffici, o ancora nel rinnovo di alcuni documenti. Gli assistenti sociali dell’ospedale sono pochi rispetto alla popolazione, e poi a un certo punto la persona esce. I servizi offerti da queste cooperative e associazioni, tanto in ospedale quanto sul territorio, sono all’avanguardia: penso all’Unità di Strada per la prostituzione, o al Cabs, per la riduzione del danno nell’ambito dipendenza da sostanze, che collabora attivamente con il SerD. Esistono i percorsi, esiste la rete, ma sono realtà che vivono di progetti che si rinnovano o meno. Dove c’è stata l’intelligenza di coinvolgerle, di farle comunicare tra di loro e con i servizi già esistenti, queste sono diventate a tutti gli effetti dei servizi, pur non essendo strutturate come tali. Qui in Umbria ci si è arrivati un po’ più tardi rispetto ad altre regioni, come la Lombardia”.

Come funzionano, invece, i servizi di medicina territoriale della Asl nel perugino?

“I consultori, così come l’assistenza infermieristica territoriale e la medicina generale sono delle realtà ben strutturate che hanno una lunga storia e un’esperienza virtuosa nel territorio umbro. Già soltanto confrontandosi con le operatrici e gli operatori che ci lavorano si percepisce che dietro c’è un’organizzazione ben fatta. Storicamente la capillarità territoriale e la comunicazione con i distretti funzionavano bene, e questo si è visto anche nelle prime fasi della pandemia da Sars-Cov2, rispetto ad altre regioni come la Lombardia, dove la medicina del territorio negli anni è stata depotenziata rispetto alla privatizzazione di alcuni servizi. Da noi, all’inizio, ha retto”.

Poi cosa è successo?

“Il Covid ha spazzato via tutto quello che c’era. Però credo che molti servizi sanitari del territorio siano stati un’eccellenza in Umbria, e che ancora per molti aspetti lo siano proprio grazie all’esperienza passata che si portano dietro. Probabilmente è un territorio più semplice rispetto ad altri. Poi vuoi il Covid, vuoi che la privatizzazione arriva anche qua, sicuramente sono tutti servizi che non si avvertono come potenziati, e che non sempre lo sono stati”.

Questo tende a tradursi in un accesso meno agevole per i cittadini.

“L’accesso ai servizi sanitari è cambiato tantissimo negli ultimi dieci anni. Si fa risalire tutto allo stravolgimento del sistema sanitario operato dal Covid. Ma non che prima non ci fossero ritardi e tempi di attesa oltre quello che era previsto per il quesito clinico… C’è da dire che c’è stato tutto un periodo di recupero dell’attività ambulatoriale non fatta, quindi inevitabilmente i tempi si sono allungati. Purtroppo il Covid ha determinato la mancanza di tante diagnosi o di interventi che hanno aggravato i problemi di salute, o costretto a un accesso all’ospedale molto più immediato. Però io penso che quella in cui studiavo e in cui ho sperimentato inizialmente i servizi mi sembrava una regione all’avanguardia proprio per capillarità e tempi di accesso”.

Oggi, quindi, non è più così.

“Adesso l’accesso agli esami del sangue, alle visite specialistiche e ancor più a tutta la parte che prevede la diagnostica per immagini ha dei tempi di attesa che non sono minimamente compatibili con le necessità delle persone. Magari è stato fatto un inasprimento anche rispetto alla possibilità di richiedere esami da parte dei medici di medicina generale: spesso si prevede che i quesiti che i medici pongono siano molto specifici, cosa che spesso non è compatibile con la pratica clinica perché ogni persona è un mondo a sé, e magari quella persona non rientra in quel quesito ma l’urgenza tu, da medico, la vedi lo stesso. Non è sicuramente in questo modo che si riducono le liste di attesa. Semmai si favorisce il ricorso al privato, con la nascita sempre più frequente di strutture convenzionate o meno con il sistema sanitario”.

Verso cui si sta assistendo a una fuga in massa non soltanto da parte degli utenti ma anche dei medici.

“Sì. Naturalmente, il problema grande è per il cittadino che non riesce ad accedere, ma anche lavorare in strutture che sono eternamente indietro nel far fronte alle richieste, che sono eternamente sotto personale, è un grande problema. Sicuramente prima del Covid c’erano già i sintomi di questa sofferenza, ma negli ultimi due anni la situazione è diventata difficilissima”.

Da parte degli utenti avverte l’insofferenza per questa situazione?

“L’ospedale filtra e seleziona, quindi io vedo la piccola fetta che è riuscita ad arrivare, ma che sicuramente si porta dietro tutto il peso di un percorso rallentato e a ostacoli. Secondo me anche la popolazione è in burnout ma purtroppo, finché non si arriva ad avere problematiche di salute tali che richiedano l’accesso molto veloce al sistema sanitario, non si ha la percezione del problema. Per quella che è la situazione ci dovrebbero essere manifestazioni in piazza settimanali. Forse c’è l’abitudine a ricorrere facilmente al privato, tanto in situazioni di reale necessità lo fai e sacrifichi tutto, se puoi”.

E chi non può?

“Credo che presto si inizieranno a vedere la conseguenze per chi non se lo può permettere, e per chi invece forse sta prendendo un po’ alla leggera la situazione, perché magari per problematiche lievi tiri fuori quei due soldi e accedi tranquillamente al privato, tanto se si tratta di una volta all’anno lo fai. Senza considerare che la presa in carico ospedaliera è ancora ad altissimi livelli: nonostante il burnout degli operatori, secondo me, il sistema pubblico è quello vincente, come qualità delle cure e sotto tutti gli altri punti di vista. Nessuno ti viene a dire ‘non fare questo ma fai quello’ per un discorso di spesa, è ancora possibile garantire lo standard massimo”.

Servirebbe un processo di (ri)educazione della popolazione all’utilizzo dei servizi pubblici.

“Purtroppo educare le persone che si possono permettere il privato non è facile. Penso che il punto risieda proprio nel sentirsi cittadini e partecipi della vita e dei servizi del luogo in cui si vive. Si deve partire da presto, dalle scuole. Forse effettivamente non stiamo educando cittadini. Perché se tu ti sentissi più coinvolto, se sentissi di più la presenza dello Stato anche in altri ambiti, ne capiresti l’importanza e sentiresti che hai una voce in capitolo. Probabilmente le persone non si sentono ascoltate in generale, e questo frammenta la loro coscienza come cittadini. Dico che la gente non protesta, poi penso ‘perché non protestiamo noi?’ Perché in realtà il grande problema è quello dei medici, e noi non prendiamo in mano la situazione come fanno in altri Paesi. Forse i nostri sindacati non sono abbastanza uniti, non so”.

Ha detto che quello umbro è un territorio relativamente semplice, anche in virtù di una densità di popolazione che è circa la metà della media nazionale. Quali sono, invece, le criticità di questo territorio?

“L’ospedale non è un luogo facilmente raggiungibile, assolutamente. Se hai la macchina sì, e nonostante questo navigherai per vari minuti alla ricerca di un parcheggio: parcheggi selvaggi, una macchina sopra l’altra. Sicuramente c’è un accesso importante, e la gente si sposta da sola con i mezzi privati perché i trasporti pubblici non funzionano: ci sono, ma gli autobus sono pochi, di notte quasi niente. Io non li prendo, sarebbe impossibile andare a lavorare con i mezzi. C’è qualcuno che lo fa, ma devi adattarti a degli orari molto dilatati, e quando hai una famiglia e devi fare altre cose è veramente difficile. E poi le indicazioni e le comunicazioni sono scarse, l’ospedale è un labirinto per tutti gli utenti, soprattutto per le persone non italiane o con disabilità”.

Agli altri servizi si accede con più facilità?

“Secondo me sì, ma non dappertutto. Penso al Centro di Salute di via XIV Settembre: è scomodissimo e prevede un parcheggio a pagamento. Magari è una posizione buona per chi vive in centro, ma per chi ha una disabilità o viene da lontano è difficile. Comunque, come dicevo prima, i servizi sono abbastanza capillari, qualcosa sicuramente migliora in periferia”.

Il Centro di Salute di via XIV Settembre ospita, oltre a consultorio e centro vaccinale, anche un ambulatorio per migranti. A chi è rivolto questo servizio?

“Principalmente alle persone che sono in attesa di regolarizzare la propria situazione, il permesso di asilo eccetera, e infatti il grosso degli accessi è mediato da associazioni che fanno accoglienza migranti. In realtà, quando si verbalizza la richiesta di protezione internazionale l’assistenza sanitaria dovrebbe essere garantita. Però per problemi burocratici e di tempistiche gli uffici non riescono ad applicare le procedure come dovrebbero, e quindi si crea un buco di assistenza in cui la persona non risulta iscritta al sistema sanitario e non ha un professionista sanitario di riferimento. Poi ci sono gli accessi di persone che si trovano qui di passaggio, o situazioni più specifiche come quella, ad esempio, dei cittadini rumeni”.

Può spiegarci meglio?

“L’Umbria è una delle poche regioni in Italia che non riconosce l’iscrizione al sistema sanitario da parte dei cittadini della Romania e di alcuni altri Paesi della Comunità Europea, che qui vengono considerati, per questo ed altri aspetti, come non comunitari. Quindi per queste persone si crea tutto un cavillo per cui non possono avere accesso all’assistenza dedicata ai non comunitari tramite, ad esempio, il codice STP (straniero temporaneamente presente, ndr), né però essere riconosciuti come comunitari. Questo è uno degli aspetti su cui stiamo lavorando. In generale, quindi, l’ambulatorio esiste per coprire dei buchi. L’ambizione nostra sarebbe che non si creassero strade diverse ma che l’accesso ai servizi fosse uguale per tutti.”

Cos’è l’Europa, vista da qui?

“L’Europa… a sensazione è un po’ lontana. Penso che sia un qualcosa a cui si tenda, ma l’Umbria rimane un po’ nel suo. C’è tanta attenzione dall’esterno sugli aspetti positivi di una realtà come la nostra. Da fuori io Perugia l’ho sempre chiamata ‘gabbia dorata”’. Dorata, per lo stile di vita sano, i rapporti semplici, il verde, perché è tutto molto vicino e poco stressante. Gabbia, perché forse non comunica abbastanza con l’esterno. Da fuori le persone sono interessate a Perugia, intravedono il potenziale di un territorio antico, autentico, vergine, che può essere un punto di partenza per fare di più, ma forse ha difficoltà a pensarsi in un contesto più europeo. Non per una questione di risorse, ma di strutture”.

Può farci un esempio?

“Sono madre di una bambina di sei anni. Parlo benissimo dei servizi per l’infanzia comunali, perlopiù gratuiti o con poca partecipazione alla spesa, alta qualità. Mi sono sentita fortunata perché mia figlia ha frequentato un nido dove stanno promuovendo l’asilo outdoor, cosa che in Europa è normalità. Fin qui penso: ‘Ok, non era la nostra cultura, stiamo sviluppando qualcosa che era lontano e che inizia ad appartenerci perché ci rifacciamo a esempi esterni’. Poi penso al dramma di portare mia figlia a scuola: non c’è un mezzo pubblico, non c’è un parcheggio, gli imbottigliamenti… Bellissimo l’outdoor, ma poi stai lì a respirare lo smog. O ancora il centro, difficilmente accessibile per bambini e famiglie che vengono da fuori. In questo senso l’Europa è lontana”.

Venti anni fa ha scelto Perugia per la dimensione internazionale che la contraddistingueva. La percepisce ancora così?

“Io continuo a vivere quell’atmosfera multiculturale per cui l’ho scelta. C’è però la certezza che per mantenerla parte tutto dal basso: mi piace Perugia perché è piena di realtà associative che combattono per aprirne la dimensione provinciale, ma dalle istituzioni per me viene molto poco. I progetti europei ci sono, ci sono delle gare per ottenere fondi per fare qualcosa di molto bello che però l’anno successivo magari si perde perché il progetto non è confermato. Devo dire, poi, che in ambito accademico e ospedaliero questa internazionalità non la vedo. Forse perché si è sempre in affanno, e allora è difficile esplorare: ci sono progetti di collaborazione con l’estero ma sono spot, frutto della volontà del singolo”.

Che futuro immagina per Perugia?

“Secondo me la città continua ad arricchirsi di persone e realtà che da dentro o da fuori sono in grado di dare quel qualcosa in più, e che non vedrebbero l’ora di ottenere un aiuto per poter concretizzare i propri progetti. Non vedo un futuro nero, anzi secondo me il futuro sarà migliore di quello che vedo adesso. Mi sembra tutto molto lento, però, sinceramente, io il movimento della città continuo a percepirlo”.

Testo di Beatrice Depretis

Foto di Mohammad Ali Montaseri