La partecipazione che viene dall’anima. Intervista a Vittoria Ferdinandi

Candidata sindaca per le elezioni amministrative del Comune di Perugia che si terranno i prossimi 8 e 9 giugno, Vittoria Ferdinandi guida una coalizione che tiene insieme forze di sinistra, centro-sinistra e liste civiche. Perugia è la città dove è nata, cresciuta, che non ha mai lasciato. Classe 1986, psicologa clinica, laureata in Filosofia politica, da cinque anni si occupa di sociale con Numero Zero, ristorante inclusivo il cui personale è composto per il 50% da pazienti psichiatrici. Ferdinandi ne è stata direttrice – un ruolo che le è valsa la nomina a Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana – fino alla scesa in campo in politica. “Nell’elemento della cura, che è quello che ho frequentato in questi anni per professione”, spiega, “esiste una dimensione sociale che è ineludibile perché l’essere umano è un essere sociale e politico: non ci può essere cura se non con una prospettiva integrata, che tenga insieme anche la dimensione della socialità e della restituzione dei diritti”.

La sua proposta di cura per la città parte dallo slogan Anima Perugia.

“Questo slogan è legato alle due anime che convivono in me: parallelamente ai miei studi mi sono sempre occupata di socialità e ho gestito alcuni locali di questa città. La parola anima va intesa nella sua doppia valenza: da un lato la necessità di accendere i luoghi di socialità di cui questa città negli anni è andata svuotandosi, dall’altro l’anima come principio vivificante delle cose. I Latini parlavano di spiritus loci proprio per descrivere quest’anima che i luoghi sanno trasferire”.

E lo spiritus loci di Perugia com’è?

“Perugia è sempre stata un’anima straordinaria, con una cifra di diversità profonda. Però la diversità bisogna saperla maneggiare: può diventare un elemento di paura, quindi in un modo o nell’altro da contenere, oppure una grande risorsa. Quello che è successo in questi ultimi dieci anni è andato nella direzione del cercare di trasformare una città straordinaria in ordinaria, dove l’altra parte politica ha schiacciato tutto sulla dimensione dell’amministrazione, facendo perdere un pensiero lungo. Eppure Perugia è stata, in passato, una città di grandi innovazioni in tantissimi campi”.

Ad esempio?

“A livello di mobilità. Perugia è stata per trent’anni all’avanguardia grazie alle scale mobili (quelle della Rocca Paolina furono inaugurate nel 1983, ndr). O, ancora, nell’ambito della salute mentale: Perugia è stata la prima città a chiudere i manicomi, anche prima di Basaglia. Ecco, secondo me Perugia deve cercare di ritrovare quella sua anima indomita e ‘ingrifata’, che è quella che le permette di immaginare qualcosa di diverso e innovativo”.

Da alcune settimane sta percorrendo a piedi i quartieri e le frazioni di un territorio comunale che è tra i più estesi d’Italia per confrontarsi con le comunità che li abitano. Qual è il mosaico che sta prendendo forma da questa campagna di ascolto?

“Quello di un’enorme geografia dell’abbandono di tutto ciò che è pubblico, dell’isolamento e della solitudine. Ci sono 52 frazioni, Perugia è una città completamente frammentata da un punto di vista urbanistico, di mobilità, di servizi e, quindi, di diritti e opportunità. Più ci si allontana dalla città compatta e più si assiste a un calo a livello di servizi. Il primo obiettivo, immediato, è quello di cercare di ricucire tutte queste frammentazioni e slabbrature”.

Obiettivo che passa anche attraverso la partecipazione, tema centrale della sua campagna elettorale. Sa riconoscere un momento storico in cui le persone, a Perugia, si sono allontanate dalla vita politica?

“Direi qualcosa di non vero se dicessi che questa cosa è da ricondurre solo a quest’ultima amministrazione. Il linguaggio della politica sempre più schiacciato verso l’amministrazione e l’allontanamento degli abitanti da una politica che parlasse dei problemi reali delle persone nasce, secondo me, dalla chiusura delle circoscrizioni e da tutta quella grande riforma – che non demonizzo, perché effettivamente il modello di governo partecipato pesava in maniera esagerata sulle finanze pubbliche”.

Però?

“Però quando si recide il legame con il territorio e con i cittadini è normale che poi la politica assuma i toni, i linguaggi, e le istanze di qualcuno che fino in fondo non ha radici nel territorio. Dopodiché sessant’anni di potere necessariamente portano a una sclerotizzazione, quindi negli ultimi anni di governo di centrosinistra i cittadini lamentavano una grande distanza da un’amministrazione che si era chiusa nella sua torre d’avorio. Lì, però, secondo me si è creato un equivoco ancora peggiore”.

Quale?

“È arrivata questa amministrazione, che rappresentava il nuovo, incarnato da un sindaco, quello attuale, che indubbiamente è una persona di grande gentilezza e prossimità. Però la prossimità, se è una condizione necessaria alla politica, non è sufficiente ma, anzi, rischia di creare un terreno fertile per logiche clientelari. Essere più vicini come amministrazione non dà garanzia di una reale partecipazione”.

Come si è riflettuto l’ultimo decennio di governo di centro-destra nell’utilizzo delle risorse pubbliche?

“L’amministrazione attuale ha molto puntato, come se fosse un elemento di vanto, sul fatto che, dopo dieci anni di governo, esce con quasi sei milioni di euro di avanzo. Ma l’amministrazione non deve fare profitto, deve riuscire a utilizzare nel modo migliore possibile le risorse in risposta alle esigenze della città. Ci sarebbe da dire che questi sei milioni di euro li abbiamo sentiti tutti”.

In cosa, soprattutto?

“Dalle strade alle aree verdi, molte in uno stato di totale abbandono. Questo è indicativo di una mentalità aziendalista, per cui il pubblico non è più un luogo di tutti, ma il luogo di nessuno. E invece il pubblico è il primo luogo dove si sperimenta il senso di comunità, è il luogo che potrebbe garantire un diritto a una vita attiva, allo sport, che dovrebbe essere costituzionalmente sancito, e sancirlo significherebbe anche fare prevenzione e promozione della salute”.

A proposito di salute, le scelte politiche degli ultimi dieci anni sono state chiare: un graduale smantellamento dei servizi pubblici a favore della sanità privata.

“Il sindaco è il primo responsabile della salute dei propri cittadini: non è possibile che ci si nasconda dietro l’argomentazione che per la sanità non legifera il Comune ma la Regione. Dopo il Covid ci eravamo ripromessi che avremmo investito nella medicina territoriale, ma non è stato fatto nulla: abbiamo due consultori aperti in tutto il territorio comunale e un indirizzo politico che non investe nella sanità pubblica”.

Secondo la classifica del “Sole 24 ore” del 2023 sulla qualità della vita Perugia ha perso otto posizioni rispetto al 2022. Eppure, da fuori, Perugia, e l’Umbria in generale, vengono spesso descritte e percepite come luoghi in cui si vive bene.

“A Perugia c’è un tasso di utilizzo di psicofarmaci e di richieste d’accesso ai servizi di salute mentale, soprattutto nelle fasce dei più giovani e degli anziani, che è quasi triplicato negli ultimi anni. Poi io credo che il migliore indicatore della qualità della vita di una città in cui si nasce sia la capacità che questo sia un luogo dove poter restare. Purtroppo il trend di emigrazione di neolaureati dalla nostra città ci rimanda l’idea che Perugia è diventata la città delle ‘grandi mancanze’. Ora, io immagino che vista da fuori, a livello nazionale e internazionale, l’Umbria possa essere percepita come un’oasi di pace. Ma bisogna levarsi da questa ottica ossessiva per cui le città vanno pensate solo in termini di attrattività turistica”.

Un’ottica che, unita ad altri fattori, ha portato a trasformare il centro storico in una “vetrina a cielo aperto”, dove però il tessuto sociale soffre.

“Il centro storico aveva 30.000 abitanti, ora ne ha 10.000. Le grandi sofferenze del piccolo commercio e il problema della sicurezza sono il risultato di un centro storico che non ha più residenzialità. La residenzialità ha bisogno di spazi che siano vivibili, e i giovani e gli universitari devono tornare a essere i cittadini intorno ai quali cucire una città”.

Come?

“La mia idea è quella di fare un assessorato alla vita notturna, cosa che mi è stata molto criticata. Inviterei l’altra parte politica a riflettere su due questioni: sull’indotto che l’industria della notte, della ristorazione, dell’accoglienza porta sul nostro territorio e, in secondo luogo, su quando Perugia è diventata la ‘capitale della droga’”.

Parliamo di una quindicina di anni fa. Come si era arrivati a questo triste primato?

“Gli studenti se ne erano andati, i locali avevano chiuso. Perugia è una città indomabile da questo punto di vista: quando la svuoti si riempie di degrado. È, quindi, necessario che l’elemento della notte venga attenzionato e valorizzato. In una città con una vocazione universitaria come Perugia deve esserci una dimensione di collettività e di socialità che tenga insieme lo sforzo e le ansie legate a questa cultura della performatività che ci invade”.

Oltre a quella universitaria, Perugia ha anche, tradizionalmente, una vocazione internazionale. E l’Europa, vista da qui, cos’è?

“Per un’amministrazione comunale è un grandissimo strumento di evoluzione e ridefinizione: penso alle agende urbane, ai fondi di coesione sociale, al Next Generation. Con alcuni strumenti l’Europa ci indica la direzione da seguire per ripensare le nostre comunità, in un senso che vada al di là del semplice profitto, ma che passi attraverso la restituzione dei diritti e l’emergenza più grande che vedo, quella dell’inclusione”.

Da dove partire, per affrontare questa emergenza?

“Per esempio, dalle nostre strade. Bisogna fare un grande piano di rimessa a norma e di ridefinizione della mobilità, perché dei marciapiedi pensati per un ipovedente o per una persona in carrozzina sono dei marciapiedi in cui ognuno di noi cammina meglio. Il tema dell’inclusione deve uscire dalle agende politiche e diventare un agendo collettivo. Dobbiamo far entrare nell’idea di ognuno di noi che curarsi dei margini significa curarsi di tutti”.

 

Testo di Beatrice Depretis

Foto di Mohammad Ali Montaseri