Nella marea delle fragilità

I clochard a Perugia non si vedono, ma ci sono. Ecco chi si occupa di loro

A Madrid qualche anno prima della pandemia nell’anticamera di un negozio, chiuso ormai da tempo, c’era una piccola camera da letto. Lenzuola bianchissime sul materasso singolo poggiato per terra e una tenda a baldacchino contro gli insetti della bella stagione, sembrava la trovata di qualche estroso designer di interni. Non lo era. Era la dimora di una clochard, una donna in carne, sulla quarantina. Aveva creato, per strada, una mezza stanza tutta per sé. Erano i primi giorni d’agosto e le vie erano piene di turisti, ma non erano i soli, ai margini dei marciapiedi e nei posti più impensabili i clochard vivevano la loro vita, fra lo shopping e le vacanze estive degli altri.

Foto di Francesca Boccabella

A Perugia è raro scorgere homeless nei loro letti di cartone o nei loro alloggi di fantasia. Perugia non è Madrid, non è una grande metropoli, però non vedere senzatetto non equivale a pensare che non ci siano. Come afferma Edi Cicchi, assessore ai Servizi sociali, famiglia, edilizia pubblica e pari opportunità del Comune di Perugia, in città non ci sono i classici clochard. Coloro che vivono una situazione di grande difficoltà hanno per lo più problemi di dipendenza, oppure sono migranti che faticano a integrarsi al termine del percorso di protezione. Il Comune di Perugia  offre accoglienza e servizi utili al reinserimento della persona in società. La struttura comunale in via del Favarone, gestita dalla cooperativa Borgorete, ospita 25 persone per notte. La maggioranza dei soggetti che si presentano al centro di accoglienza sono uomini, raramente sono presenti delle donne. Chi arriva in questa sede viene accompagnato in un un percorso indirizzato verso l’uscita. Alcuni rifiutano una spinta verso l’autonomia e ciò crea una situazione di stallo per il turnover nella struttura, poiché non è possibile ospitare un soggetto a vita. A questo proposito, la dirigente delle Politiche sociali del Comune di Perugia Elisa Granocchia aggiunge che “va fatto un lavoro di presa in carico che richiede bidirezionalità. Da una parte ci sono sicuramente dei servizi che sono ben strutturati e ben efficienti, però non deve essere dimenticato il principio di autodeterminazione del soggetto. Nonostante ciò, il nostro compito come istituzione e anche come parte tecnica è quello di dare un’offerta a chi si trova in una situazione di difficoltà”. Le problematiche non sono legate solo alla pratica abitativa, molto spesso si aggiungono problemi di tossicodipendenza, ludopatia, alcolismo o problemi di salute mentale che aggravano la condizione.

Anche l’assistente sociale Beatrice Boco si sofferma sul principio di autodeterminazione. “Quando un uomo perde il lavoro o si ammala, la prima cosa che avviene è la perdita della dignità – ci dice – Il compito dei servizi sociali non è quello di dare un tetto. Noi lavoriamo in rete con i servizi sociosanitari e con i servizi dell’impiego, affinché le problematiche possano risolversi”. Spesso la vita dei senza fissa dimora è stata ideologizzata, come una scelta di totale scioglimento dai compromessi del vivere civile. Tuttavia quando la società intera è in crisi, non più in grado di badare ai suoi membri più deboli, il precariato si trasforma in disgrazia. Ogni libertà si scontra inesorabilmente con l’abbandono. L’esclusione sociale dunque durante la pandemia è aumentata, intere famiglie che prima non avevano problemi improvvisamente si sono trovate senza una casa. La causa scatenante di una situazione così problematica, il più delle volte, è la perdita del lavoro. Per affrontare l’emergenza si è creata una vera sinergia fra Comune, Caritas, volontariato e associazioni. “C’è una rete di servizi e un rapporto di solidarietà tra i diversi soggetti presenti nel territorio”, ci dice l’assessore Cicchi. La Caritas Diocesana Perugia-Città della Pieve si occupa di singoli individui e famiglie senza fissa dimora. Proprio come il Comune, dispone di un dormitorio per maschi adulti, il dormitorio Sant’Anna dei servitori. Per gli ospiti ci sono a disposizione diversi progetti, indirizzati sempre al reinserimento sociale. Coloro che accolgono queste proposte, possono rimanere fino alla fine del percorso. Si tratta di dare stimoli come prendere la patente per l’auto, per il muletto o iscriversi all’università, progetto, quest’ultimo, scelto attualmente da un ragazzo all’interno dei dormitorio.

Foto di Karim Corban

“Noi chiediamo partecipazione alla pulizia del luogo, la sera possono tranquillamente cucinare e durante il giorno possono pranzare alla nostra mensa. L‘ambiente è molto familiare e c’è l’obiettivo di ricostruire una relazione – ci dice Don Marco Briziarelli, direttore della Caritas Perugia – L’imposizione di uscire alle otto è perchè il dormitorio è una situazione di transizione quindi alle otto che tu vada all’università, o a fare un corso o a cercare lavoro, non resti dentro. Sarebbe diseducativo”. La struttura ospita all’incirca 13 persone che possono appunto frequentarla dalle 19 e 30 di sera fino alle 8 del mattino.

Dedicato alle famiglie è invece il Villaggio della carità, cinque appartamenti per chi si affaccia alla povertà assoluta e non ha altra alternativa che la strada. In questo cohousing sono accolte quindici famiglie, ci sono una zona notte con servizi igienici separati e una zona giorno in comune. Le famiglie vengono seguite passo dopo passo, dall’ambiente scolastico dei più piccoli al reinserimento sociale, dalla ricerca del lavoro all’aiuto con le pratiche burocratiche. Ci sono colloqui regolari con l’assistente sociale della Caritas e c’è poi una famiglia di volontari, una famiglia custode, che vive all’interno del villaggio per eventuali problematiche che possano nascere all’improvviso. Al momento ci sono 50 persone, di cui 20 sono sotto i 14 anni, e come ci dice Don Marco “vivono questo luogo come se fosse casa loro, hanno i loro spazi e hanno una cultura della condivisione. Quando abbiamo accompagnato l’ultima famiglia in uscita a vedere la nuova casa, i bambini non volevano più lasciarla. Era grande e ognuno aveva la propria camera da letto. Il padre più tardi mi ha confidato che per la prima volta la figlia lo ha abbracciato dicendogli ti voglio bene.. Si crea un’esperienza collaborativa e alcune famiglie si affezionano alla struttura, e quando escono dai percorsi e riprendono la vita normale ritornano per dare aiuto. Non sempre si assiste al lieto fine, per quelle famiglie che sono state spostate da un luogo all’altro è impossibile che si crei un legame del genere.

There’s no place like home, dice la piccola Dorothy nel Mago di Oz, non c’è nessun posto come casa. Lei si era persa e prima di ritornare ha dovuto affrontare streghe cattive, cadute, inciampi e avventure spiacevoli. Nel suo percorso ha trovato anche creature pronte a tenderle la mano e anche grazie a loro è riuscita a ritrovare la strada perduta. Chiunque può perdere le redini, la casa, la dignità. Basta poco. Ogni vita paga le conseguenze di un grande meccanismo. In questi casi, non guasta ricordarlo, è grazie alle comunità e alle persone che ci guardano le spalle e ci accompagnano nelle avversità che riusciamo a trovare la strada verso casa.

Articolo di Federica Magro

Foto di Karim Corban e Francesca Boccabella

Foto di Karim Corban