L’era della partecipazione (forse) è cominciata

Da Agenda Urbana a Pinqua, Perugia prova a costruire un percorso comune tra governanti e cittadini

A Ponte San Giovanni sta partendo un progetto che cambierà il volto del quartiere. È dotato di una mole di finanziamenti e di una peculiarità innovativa che potrebbero renderlo una sorta di architrave per un possibile nuovo modo di intendere la città. Cioè non solo di progettarla, ma di viverla, poiché è la prima volta a Perugia che le esigenze dei residenti e il prodotto finale scaturito dall’investimento delle risorse pubbliche potrebbero coincidere. Nel programma “Ponte San Giovanni da periferia a città”, finanziato dal bando nazionale Pinqua (Programma Innovativo Nazionale per la Qualità dell’Abitare), si sta infatti esperendo una pratica di partecipazione che va oltre il semplice ascolto, e che ha visto i cittadini interessati partecipare a dei laboratori di coprogettazione per la definizione di alcuni degli interventi previsti dalla cornice progettuale del Comune, che ha consentito di attrarre su Perugia 14,8 milioni di finanziamento statale ai quali si aggiungono altri 4 milioni di risorse locali. Per cui piste ciclabili, riqualificazione delle aree verdi e più in generale modifica dell’assetto attuale degli spazi pubblici del quartiere prenderanno una forma che terrà conto delle istanze di chi ha partecipato ai laboratori.

La quantità di risorse investite su Ponte San Giovanni rende quel progetto il più importante dal punto di vista quantitativo. Ma nell’ambito Fontivegge-Madonna Alta-Ponte della Pietra stanno muovendo le mosse altre esperienze che, seppure di tutt’altra scala dal punto di vista dei soldi impegnati, vanno se possibile ancora più a fondo nell’utilizzo della leva della partecipazione dei cittadini. Qui, attraverso il programma “Agenda Urbana” e grazie all’animazione dei portieri di quartiere, si sta procedendo all’individuazione di beni comuni che, mediante la stipula di Patti di collaborazione con il Comune, vedranno i residenti protagonisti nella gestione diretta di parchi di quartiere ed edifici pubblici e che a loro volta, oltre a venire riqualificati, diventeranno una sorta di cornice pubblica – anzi comune – per le iniziative che emergeranno dal territorio. L’obiettivo della cooperativa Borgorete, che sta seguendo la cosa, è la stipula di sei Patti per la messa in comune e la gestione diretta da parte dei cittadini di altrettanti beni pubblici. All’orizzonte c’è pure la stipula di Patti che non abbiano ad oggetto solo beni materiali, ma anche immateriali. Si sta ragionando ad esempio su un Patto per la salute che consenta una sorta di presa in carico di quartiere delle persone a più alta vulnerabilità e di un Patto per la realizzazione di una “fiera dei talenti”.

Il Patto di collaborazione è qualcosa di profondamente differente dalla convenzione, lo strumento principe usato fin qui per questo genere di questioni. Semplificando: la convenzione assegna a un soggetto, che si fa carico di onori e oneri, la gestione di un bene pubblico. Con il Patto, l’amministrazione si impegna ad assicurare gli interventi che garantiscano la fruibilità del bene la cui gestione comune è invece demandata ai cittadini. Se la convenzione assomiglia molto – pur non essendolo formalmente – a una privatizzazione, seppure a tempo, il Patto di collaborazione è invece l’esaltazione della pubblicità del bene che si realizza mediante la partecipazione; sarà quest’ultimo ingrediente a determinare la progettazione dell’uso che si farà del bene e la sua gestione successiva.

La partecipazione, pur essendo costituzionalmente garantita, è un concetto che solo di recente si sta facendo sempre più largo e in maniera via via più articolata. La pluralità delle accezioni con cui viene declinato rappresenta però anche il rischio della sua semplificazione e, di qui, della sterilizzazione delle sue punte più innovative e potenzialmente proficue. È  per non disperdere il valore della pratica che presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università degli Studi di Perugia dallo scorso mese di settembre è stato attivato il Master per la creazione di figure esperte nella progettazione e gestione di politiche e processi partecipativi. Intanto, la partecipazione è da un lato valore, e dall’altro metodo. Inoltre, analizzata sotto questa sua seconda forma, è uno strumento poliedrico fondato al tempo stesso su canoni generali ma che di volta in volta va adattato a oggetti differenti, come la distinzione fatta sopra tra partecipazione per la cura di beni materiali e immateriali lascia intendere anche solo a livello intuitivo. C’è insomma una tastiera piuttosto ampia di registri da utilizzare, che richiama però al tempo stesso a una visione sistemica della partecipazione che di volta in volta viene agita. Tutto questo necessita di figure esperte, appunto, che sappiano maneggiare la materia con la cura necessaria affinché la scintilla innovativa della partecipazione non finisca per venire disinnescata in una sorta di diaspora degli scopi della moltitudine di soggetti che partecipano. Qui sta il valore del Master istituito in seno all’Unipg; che rappresenta una ricchezza per il territorio la quale si sta già esplicando nell’impiego dei partecipanti al corso di studi in alcuni dei processi partecipativi che si stanno svolgendo in città. A cominciare proprio dal Pinqua di Ponte San Giovanni, dove studenti e studentesse hanno coordinato i tavoli di coprogettazione sperimentando sul campo le conoscenze apprese.

A livello più ampio, la partecipazione diretta dei cittadini nella gestione dei beni comuni o alla progettazione degli spazi urbani o a esperienze di welfare territoriale o a qualsiasi altro ambito della vita comune si voglia applicare questo poliedro innovativo è una sorta di sostanziamento della democrazia. E ciò è tanto più vero se si considerano due altri elementi. Uno è di carattere territoriale: nel 2011 sono state soppresse le circoscrizioni nei centri con meno di 250mila abitanti. Questo significa che in una città ampia territorialmente come Perugia, gli unici riferimenti politico-amministrativi di un agglomerato che si estende da Solfagnano a San Martino in Campo e da Santa Sabina a Fratticiola Selvatica sono rimasti consiglieri comunali e assessori che vivono a Palazzo dei Priori, essendo stato amputato qualsiasi strumento di decentramento. L’altro elemento è più ampio e di sistema, e attiene alla venuta meno delle articolazioni territoriali dei partiti, sempre più somiglianti a comitati elettorali sul modello americano piuttosto che ai corpi intermedi di novecentesca memoria che traducevano, quando meglio quando peggio, le istanze territoriali all’interno delle istituzioni.

È questo gomitolo di ragioni che rende il tema della partecipazione diretta dei cittadini alla gestione delle cose comuni sempre più centrale e ne fa un potenziale strumento di ricompattamento del corpo sociale, di riavvicinamento delle persone al comune e di rafforzamento della democrazia. Ed è lo stesso crogiuolo che costituisce l’innesco per i processi territoriali di Ponte San Giovanni e dei diversi quartieri di Perugia in cui si stanno sperimentando i percorsi sopra accennati. È come se il fiume degli accadimenti, al di là della stessa volontà conscia delle persone e delle istituzioni, stesse portando con la sua corrente all’approdo necessario. Un fiume che a dire il vero, seppure ha cominciato a ingrossare il suo letto di recente, ha una sorgente lontana. Fu a Porto Alegre che a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso venne introdotta la pratica del bilancio partecipativo, strumento attraverso il quale i cittadini sono arrivati a gestire direttamente il 25 per cento delle risorse comunali. E in Italia, dopo l’esperienza pionieristica di Modena all’alba degli anni Duemila, sono oggi una quarantina i municipi che adottano forme differenti di partecipazione dei residenti alle scelte di bilancio. In Europa, vale per tutti l’esempio del quartiere di Hackney, alla periferia nord-est di Londra, dove interi pezzi di città che erano diventati reperti arrugginiti di un passato industriale travolto dal postfordismo sono stati riqualificati mediante lunghi e ragionati processi partecipativi.

Però attenzione. Ci sono potenzialità straordinarie, ma anche rischi, nel maneggiare il concetto della partecipazione e nel concreto tentativo di esperirla. Tra i primi c’è la possibilità che essa venga solo sbandierata o declinata meramente nella forma dell’ascolto, per poi essere chiusa di nuovo nei cassetti. E poi c’è l’eventualità che, anche al di là delle migliori intenzioni, il processo partecipativo si risolva in una sorta di sfogatoio all’interno del quale le diverse istanze vanno a confondersi e a disperdersi in mille rivoli senza riuscire a diventare atti di creazione o trasformazione. Per questo il poliedro, come l’abbiamo definito, necessita di persone esperte che lo sappiano contemplare nella sua interezza e siano in grado di portare il magma che emerge dalle comunità partecipanti a uno stato solido e aderente alle esigenze che a volte vengono confusamente manifestate. Se la si articola in maniera corretta però, la partecipazione, oltre a diventare strumento per inverare la democrazia – renderla più sostanziale e meno formale – diventa non solo possibile antidoto alle alienazioni cui le città spesso costringono, ma anche griglia per il censimento di esigenze e l’adeguamento ad esse di servizi e beni che, viste le lontananze dei poteri dalla vita reale cui si è fatto riferimento, rischiano di non essere intercettate e rimanere in quel limbo latente in cui il potere si comporta come se tutto rimanesse uguale, mentre nel frattempo la realtà cambia.

Articolo di Fabrizio Marcucci