L’arcipelago della solidarietà

All’inizio della pandemia a Perugia sono nate molte iniziative per il sostegno di base alle povertà

Alcune storie sono state raccontate nel documentario La pancia verde

Da Cap 06124, che opera tra via Birago e via del Lavoro, a Felicittà, che sta a Ponte della Pietra; da Densa a Ponte San Giovanni, a Fiorivano le Viole, la cui azione si concentra nel cuore del centro storico; da Perugia solidale, il cui quartier generale è a San Sisto, a Vivi il Borgo, Ya Basta, Borgo Bello e Banca del Tempo, che sono nate e lavorano nei quartieri storici della Perugia dentro le mura. È un arcipelago multiforme per genesi, forme di organizzazione e modi di azione quello che si è mosso a Perugia nei mesi più bui del blocco delle attività provocate dalla propagazione del covid. Ma condivide un minimo comune denominatore che ha fatto della città capoluogo di regione uno dei centri in cui la risposta spontanea delle persone comuni ai tanti bisogni generati da una situazione imprevedibile e ai limiti della distopia è stata più massiccia, concreta ed efficace. E ha dato vita a un fenomeno che da un lato resta sotto traccia, vista la molecolarità che lo caratterizza, ma dall’altro ha cominciato ad attrarre le attenzioni di osservatori curiosi, tanto da andare a costituire il cuore di un videodocumentario, La pancia verde, che si può vedere accedendo alla piattaforma on line OpenDDB (Distribuzioni dal basso) e che partendo dall’epicentro del capoluogo tenta di analizzare il fenomeno anche a livello regionale.

Spese solidali, raccolte di fondi restituiti sotto forma di buoni alimentari, spese sospese, gruppi di acquisto solidale che si sono auto tassati per realizzare un surplus col quale acquistare cibo per chi non poteva permetterselo. E ancora: assistenza nella compilazione di moduli per accedere ai bonus “istituzionali”, raccolte di dispositivi informatici per agevolare la partecipazione alle lezioni a distanza, e molto altro ancora. Il tutto organizzato da associazioni di quartiere, comitati, gruppi spontanei, cooperative. Organismi diversi e non afferenti a una regia centrale, bensì rispondenti direttamente alle necessità registrate sul campo. Si è assistito in questa città a una temperie di creatività solidale, o meglio, di solidarietà creativa, che cozza contro le letture molto in voga di una (a)socialità composta da individui tutti ripiegati su se stessi, e apre anzi a una riflessione sulle forme della partecipazione e della risposta ai bisogni sociali emergenti. Forme che assumono le vesti del mutualismo e della cooperazione spontanea e che, essendo più ottocentesche che novecentesche, risultano forse per questo di difficile interpretazione per chi le guarda con le lenti utili a capire il secolo scorso, così diverso dall’Ottocento che lo precedette e caratterizzato più per il consolidamento dell’aspetto istituzionale che per quello dell’intervento diretto.

Tutto quello appena sommariamente descritto ha dato vita a ciò che non è esagerato definire un iceberg, se non altro perché, data la mole e la multiformità, molto del lavoro di queste comunità di quartiere resta sommerso. E condivide in questo senso una caratteristica che è quella del fenomeno stesso che esse combattono: la povertà, il bisogno, sommersi anch’essi da un discorso pubblico troppo spesso preso da altro. “Quando abbiamo cominciato ad andare in giro per la presentazione del documentario – mi dice Giulia Tonelli, che insieme a Ferdinando Amato ha ideato La pancia verde – in molti ci hanno ringraziato perché si sono resi conto del lavoro simile al loro che molti altri stavano compiendo e di cui non erano a conoscenza”. “Abbiamo capito – dice nel videodoc Martina Barro, dell’associazione Vivi il borgo – che c’erano problemi al limite della sopravvivenza, e abbiamo agito”. “L’ufficio di cittadinanza ci chiamava – echeggia Daniele Bacchettini, di Cap 06124 – e ci chiedeva di andare in soccorso di questa o quella famiglia, se potevamo”.

Se è difficile censire i gruppi e le attività che hanno fatto del capoluogo questa sorta di epicentro della solidarietà, è altrettanto complicato trasmettere l’idea di come il bisogno abbia pesantemente allungato la sua ombra fino a coprire fasce di popolazione che ne erano rimaste indenni fino all’alba del 2020. Un bisogno che, occorre sottolinearlo, non ha allentato la presa se è vero come è vero che l’associazione Borgo Bello di corso Cavour ha ripreso proprio nei mesi scorsi l’iniziativa della spesa sospesa e se Perugia solidale, comitato che raccoglie diversi gruppi operanti in più quartieri, alla fine del lockdown ha addirittura rilanciato la sua attività, dedicandosi alla produzione diretta di beni da redistribuire attraverso la coltivazione di terre nella cintura della città. L’ombra della povertà, insomma, è stata a sua volta inseguita dalla luce della solidarietà creativa, in questo gioco di fenomeni opposti e contrari che condividono però la difficoltà a farsi definire.

Per tentare di chiarire cosa abbia significato l’allungamento dell’ombra della povertà e del bisogno, e capire così di converso a quale tipo di esigenza abbiano risposto le luci solidali che si sono accese in città, possono essere d’aiuto alcuni dei dati contenuti nel VI rapporto sulla povertà redatto dalla diocesi di Perugia-Città della Pieve e divulgato nel mese di luglio appena passato. Nel rapporto, curato da un’équipe coordinata dal professor Pierluigi Grasselli e basato sulla registrazione delle attività svolte dal centro d’ascolto della Caritas diocesana, si legge che nel disgraziato 2020 c’è stato un aumento del 25 per cento delle richieste d’aiuto e si è assistito a un “primo accesso” allo sportello Caritas per 442 persone, che hanno rappresentato il 39 per cento del totale, laddove negli anni dal 2011 al 2018 la media dei “nuovi arrivi” era stata tra il 5 e l’8 per cento. L’aumento è stato trainato da richieste di persone italiane, e anche il reddito di partenza dei richiedenti aiuto è salito. Che è successo, insomma? Che molti di quelli che si trovavano sulla linea di galleggiamento sono andati sott’acqua quand’è arrivata la piena. Lavoratrici e lavoratori costretti ad operare in nero, persone impegnate in un lavoro di cura che, essendo fatto di contatto fisico, è stato reso pressoché impraticabile dal rischio di contaminazione, partite iva senza ammortizzatori; una pletora di persone in carne e ossa ma senza volti e nomi hanno dovuto affrontare il bisogno. E ciò è successo, e qui sta il cuore del valore dell’attività di questa Perugia mutualistica, in una regione in cui dal 2002 al 2017 era già raddoppiato l’indice di povertà registrato dall’Istat e in cui nel 2020 si sono contate 90mila persone povere e in cui, ancora, un terzo delle famiglie si dichiarava già nel 2019, quando la crisi da Covid era ancora fantascienza, incapace di fare fronte a spese impreviste. Si tratta di un fenomeno ben descritto, nell’aprile 2020, dalle 4mila domande presentate da altrettante famiglie perugine al Comune per accedere ai buoni spesa allora varati dal governo. Una misura, si badi, da cui erano esclusi i nuclei che usufruivano già di misure di supporto: i 4mila insomma, erano quelli che si definiscono “nuovi poveri”.

A questa “novità” ha risposto la Perugia solidale e multiforme cui si è fatto cenno. E a novità si è risposto con novità. Qui sta la cosa interessante. Perché la questione non riguarda tanto ciò che è stato, bensì ciò che è. La risposta ottocentesca ha rivestito infatti caratteristiche che spesso l’attuale welfare istituzionale e novecentesco non è in grado di soddisfare pienamente. Tempestività, elasticità e appropriatezza degli interventi sono state garantite perché provenienti da un contesto partecipato e a conoscenza della cornice in cui operava. Il comitato Perugia solidale, da solo, ha garantito assistenza a cinquanta nuclei familiari, 178 persone in tutto, tra cui oltre cinquanta minori, che hanno visto alleviate le loro difficili condizioni grazie a un intervento diretto e senza il bisogno di riempire moduli o ottemperare a caratteristiche da certificare. Quando il bisogno allunga l’ombra, insomma, c’è bisogno di una luce che si accenda tempestivamente e la dissolva, l’ombra, senza troppi giri né di parole né di moduli. L’efficacia di intervento può essere garantita da presidi territoriali che vivendo i quartieri e conoscendo le situazioni possono bypassare burocrazie che, da lontano, hanno invece bisogno delle certificazioni per riconoscere le situazioni.

Il valore del lavoro di questo caleidoscopio di solidarietà che ha fatto di Perugia un caso raro in Italia, a ben vedere, va addirittura oltre quello dell’intervento diretto, pure prezioso. Sta nel disegnare, ancorché implicitamente, una direzione da seguire, nel recupero di un mutualismo consapevole e territoriale, che proprio per questa vicinanza al territorio ne consente una cura sociale efficace. Essendo un iceberg, di questo lavoro se ne vede solo una parte; ed essendo stata una risposta diretta ed emergenziale, spesso è stata tanto votata al risultato quanto inconscia del proprio valore costitutivo. Lo stereotipato adagio recita che la parola crisi può trasformarsi in opportunità. Si può essere d’accordo, a patto di riconoscere che occorre uno sforzo di innovazione i cui semi sono tutti da sviluppare, ma in qualche modo hanno già germogliato.