Un anno di Popup

Il caffè-libreria di via Birago ha un’identità indefinibile. Qualsiasi cosa sia, funziona

Raccontare in poche righe uno spazio, che è un progetto, che è persone che si incontrano e parlano e immaginano e costruiscono, rischia di degenerare in un esercizio di retorica. Ma, ecco, se c’è una cosa che a Popup • libri / spunti / spuntini abbiamo cercato di evitare da sempre, dal primissimo incontro in cui abbiamo immaginato cosa fare di un posto vuoto in una piazza centrale di un quartiere che lambisce il centro storico e sfiora la periferia, ecco, forse l’unico punto fermo di tutto il percorso è stato proprio il rifiuto di cedere alle retoriche che ammorbano il contesto – sociopolitico, si sarebbe detto un tempo – in cui anche noi ci muoviamo. La retorica dei santi martiri delle periferie, che sfidano il male e porgono il loro aiuto ai poveri cristi che disgraziatamente vi abitano. La retorica degli imprenditori illuminati, che portano la luce della cultura e del gusto in lande sovrappopolate di subumani. Ma anche la retorica della next big thing come panacea di tutti i mali (A che punto del giro un progetto di avanguardia culturale diventa speculazione economica? Un quartiere è vivo quando ci viene gente da fuori a dirti quanto è bello, quando i residenti trasformano le loro case in airbnb e gli affitti schizzano alle stelle?).

A un anno dalla sua apertura Popup rimane un “oggetto” ibrido, difficilmente incasellabile e poco rassicurante – se si cerca la rassicurazione nel poter definire in una sola parola o concetto chi è cosa. Esattamente come le persone che abitano, vivono, lavorano nel quartiere (in questo – in tutti). In una delle nostre prime uscite pubbliche, parlando con una giornalista definimmo via Birago come un quartiere “perfetto”. Non era una provocazione, ma la presa d’atto che nel giro di poche centinaia di metri coesistono qui tutti gli elementi che caratterizzano questa nostra confusa contemporaneità nella sterminata provincia italiana, quella che va da un centro storico bomboniera all’altro, da un centro direzionale metropolitano all’altro. In mezzo, quartieri “di periferia” che sono il centro di vite facili, difficili, belle, complicate, apparentemente perfette, apparentemente disastrate, condotte in una terra straniera o nella casa dei propri nonni. 

È qui, in quartieri come questo, che doveva spuntare e dovranno spuntare i Popup delle nostre città, grazie ad associazioni, residenti, commercianti che capiscono che l’unico modo per darsi un futuro è non lasciarsi annichilire dal presente. Senza mai cedere alla presunzione di aver capito tutto – dicevamo sempre nella stessa chiacchierata con quel giornale – ma rimettendosi costantemente in discussione, mantenendo la propria identità composita ben salda e consapevole per metterla a disposizione della comunità. Noi – un noi grande, fatto da chi Popup lo tiene aperto tutti i giorni ma anche dai piccoli che ci corrono davanti all’uscita della scuola – ci stiamo provando così, tra un caffè e un dolcetto (buoni, eh?), una chiacchierata con un autore e un laboratorio di giardinaggio per bambini, parlando di resistenza nel Rojava e di pancake, di femminismi e di nazionale di calcio, di Gruppi di acquisto solidali e di dialetto perugino. Continuando a farci domande, perché ognuno possa trovare dallo stare insieme le proprie risposte. “Perché quello collettivo sia un gesto naturale, non velleitario” – rubando a Gaber. Perché “siamo sempre indietro, la realtà è più avanti”.

Articolo di Filippo Costantini

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