Dove la poesia non muore

Sono arrivati nel 2021 dall’Afghanistan. A Perugia hanno cominciato una nuova vita

Ho danzato tra i vetri e sui sassi – ho danzato nel mio sangue con una gonna colorata – nei suoi sogni ho avuto una festa salata – nei suoi sogni ho danzato con abiti stretti – sono salita sul palco per lui – ho danzato con una gonna sporca di sangue – ho fatto la ruota con la gonna e sono caduta sul palco – ho danzato con un corpo dolorante e le gambe paralizzate – a volte per un pezzo di pane nelle strade ho danzato con uomini stanchi e con la nostalgia di casa nel cuore – dalle impronte dei miei tulipani cresciuti nel suo cuore – nel sangue del mio amore – ho danzato nel mezzo della guerra”.

L’autrice di questi versi è la ventottenne Shamim Frotan, arrivata a Perugia nell’estate del 2021 dopo la presa al potere dei talebani in Afghanistan. Accolta dalla Caritas Diocesana di Perugia, Shamim è una poetessa e giornalista afgana dai capelli di seta nera. Nel suo Paese scriveva per il «Hasht-e Subh Daily» e per il giornale «Rah-e-Madanyat» (“il sentiero della civiltà”), che lavora per promuovere i diritti umani e il rifiuto dell’estremismo e della violenza. Era solita leggere le proprie poesie davanti a un pubblico, abitudine che non ha perso nemmeno in Italia. Mentre parla la sua lingua e recita la sua lirica, sembra cantare tutte le anime ferite del popolo afgano, quello che non ha dimenticato e che le rimane negli occhi. A tradurre le sue parole, scritte e parlate, ci pensa Tamana Frotan, la sorella di 25 anni che insieme a lei ha fatto il viaggio di cui non riesce a parlare. Il suo viso, solitamente sorridente e sprizzante di allegria, si bagna di lacrime e il racconto si ferma a quando i talebani arrivarono e lei era a lavoro. Vengono da Kabul, Shamin mi mostra fiera il suo tesserino da giornalista sperando un giorno di poter lavorare per la BBC e Tamana racconta del suo sogno di diventare una brava infermiera. Di Perugia amano il centro storico, anche se Tamana prova un profondo, quanto mai bizzarro, fascino per Ellera di Corciano, dove le piace passeggiare ascoltando Felicità di Al Bano o parlare al telefono con la madre rimasta in Afghanistan. Le due sorelle ricordano con gioia l’arrivo in Umbria e l’accoglienza con torta e champagne da parte dei vicini di casa, che ha reso quei giorni, per qualche istante, meno dolorosi. Innamorate follemente della pizza margherita, per entrambe l’odore di caffè contraddistingue le strade di Perugia, sia del centro che della periferia. Un aroma pregnante, proprio come quello del cibo fra le strade di Kabul. A ricostruire con loro due questi ricordi olfattivi, c’è anche Monira Najibzada. “Ci sono molti venditori vicino alle università e agli uffici, la gente quando esce in pausa pranzo mangia street food e tutte le strade si riempiono di cibo. Per me questo è indimenticabile”. Nella sua memoria Kabul profuma di spiedini di agnello, di Bolani, una sorta di fagotti fritti con le verdure, e di Bor Pilau a base di riso e pollo, il suo piatto preferito. Monira, 40 anni, ha una voce bassa e gentile, parla un perfetto inglese e comprende benissimo l’italiano. È arrivata a Perugia con i suoi due figli, Hanya e Mohammad, il 28 agosto del 2021. Non ha ancora dimenticato le terribili sensazioni provate durante il suo viaggio, non voleva andar via, ma l’arrivo dei talebani ha costretto lei, come molte altre persone, ad attraversare Paesi nei quali mai avrebbe pensato di trovarsi. “Non sarà stata una gran vita, ma non era una brutta vita la mia, era semplice e senza problemi. Vivevo bene a casa con i miei familiari e amici. Abbiamo studiato tanto e lavorato duro, tutto questo era bello”, ci racconta. “Prima di partire, io e miei figli abbiamo dormito in aeroporto e solo dopo due giorni abbiamo trovato un aereo con cui andare via. Fu un giorno orribile per noi”. È la seconda volta che Monira lascia la sua nazione, quando era una bambina insieme alla sua famiglia sono scappati a causa delle guerre fra tribù. Rifugiati in Iran, lei, le sue 4 sorelle, suo fratello, suo padre e sua madre tessevano tappeti per poter vivere dignitosamente. Con l’arrivo degli americani e della cultura occidentale, nel 2001 tornarono in Afghanistan, il padre ricominciò a insegnare economia all’Università Americana e Monira riprese gli studi in Giurisprudenza. Nonostante il matrimonio in giovane età, voluto dalla famiglia, iniziò a insegnare all’università, per poi lavorare nell’ufficio del procuratore di Kabul. Monira sottolinea con forza la fortuna di vivere nella capitale afgana, una città internazionale che permette alle donne di lavorare e vivere normalmente, mentre non si può dire lo stesso del resto del Paese dove la figura femminile era oppressa anche prima dell’arrivo dei talebani. C’è però un’eccezione oltre Kabul, ed è Nili, il capoluogo della regione Daikondi, dove nel 2009 Azra Jafari è diventata sindaco, la prima donna a ricoprire questo ruolo in Afghanistan.

Mohammad Naseri è il figlio di Monira, ha 23 anni e la sincerità tipica della sua giovane età: “Abbiamo lasciato l’Afghanistan con un aereo militare e siamo arrivati in Italia il 28 agosto. Non è stato facile dire addio ai propri amici e parenti, è troppo doloroso lasciarsi alle spalle le conquiste fatte e abbandonare il proprio Paese. Sono sicuro che nessuno capirà questa frase a meno che non sperimenti personalmente la mia situazione. Ho avuto una bella vita prima di partire, andavo all’università e avevo molti amici. Mia madre aveva un buono stipendio e così ho potuto studiare in pace”. Ha nostalgia del suo Paese, della famiglia, e porta con sé ricordi preziosi sul parco nazionale della città di Bamiyan. Non vorrebbe tornare in Afghanistan, crede che la situazione politica non possa modificarsi, ”i talebani non cambieranno il loro comportamento malvagio e a volte mi chiedo come un gruppo di persone possa essere così ignorante, selvaggio e diabolico”. Mohammad vorrebbe invece rimanere in Italia, ama il cibo, il clima e le persone amichevoli. Passa le sue giornate a imparare l’italiano e la notte guarda film e ascolta musica. Ha grandi ambizioni, lavorare per Amazon o Microsoft Corporation, ma non gli dispiacerebbe creare la sua azienda in ambito tecnologico. Il desiderio più grande è però un altro: “Voglio aiutare mia madre perché questo è il mio momento per sostenerla e non lascerò che sia triste”. Non sa però che Monira, con la voce piena di poesia, ha detto: “Sono felice se penso a mio figlio e a mia figlia. Loro sono molto intelligenti e quando guardo al loro futuro ho molta speranza che possa essere felice”. Tamana, Shamim, Monira e Mohammad ora vivono negli appartamenti gestiti dalla cooperativa Unitatis Redintegratio, chi ad Ellera di Corciano, chi in Corso Garibaldi. Ogni mattina escono di casa per andare a studiare, Tamana e Shamin all’Università per Stranieri, Monira in centro storico all’ostello della Caritas. Questa donna piena di speranza prende lezioni d’Italiano insieme a persone che vengono da ogni parte del mondo, Pakistan, Bangladesh, Tunisia, Iraq, Egitto e Nigeria. Qui sono richiedenti protezione internazionale e qui, molti di loro, vogliono restare.

Articolo e foto di Federica Magro