I professionisti del bene comune

Foto di Francesco Capponi

I professionisti del bene comune

Il ruolo degli operatori sociali in un mondo fatto per le maggioranze

Oggi non parleremo di quello di cui pensavamo di parlare, o forse sarebbe più corretto dire che oggi parleremo di cose di cui non abbiamo avuto il permesso di parlare. Avremmo voluto parlare di spazi, momenti e intelligenze messe al servizio del bene comune, della sicurezza, della giustizia e dell’accoglienza. Avremmo voluto parlare di eccellenze del nostro welfare e della nostra società. Avremmo voluto raccontare di come i soldi pubblici possano essere spesi bene e messi al servizio del bene comune. Attraversando questo nostro piccolo mondo abbiamo però capito quanto sia sensibile e quanto sia importante imparare a camminare sulle uova. Proveremo quindi a romperne solo il necessario e procediamo.

Guarderemo la questione con gli occhi di un “operatore sociale”, un “educatore”, un “mediatore”, una di quelle persone che del “non farsi i fatti propri” hanno fatta una professione. Guarderemo la questione dalla prospettiva dei professionisti che operano per permettere «alle minoranze statistiche di avere qualche opportunità in un mondo strutturato per le maggioranze» e per permettere alle maggioranze di non sentirsi isolate e assediate. Abbiamo preso in prestito da Bauman questa formulazione del concetto di diversità perché ci aiuta a comprendere la prospettiva da cui ci apprestiamo a descrivere gli “operatori sociali” e il loro lavoro. Questa formulazione ci aiuta a sospende il giudizio morale insito nelle categorie di normale e anormale e dovrebbe quindi preservarci dalla tentazione di pensare alle persone con cui entriamo in contatto, a cui dedichiamo le nostre risorse, come sbagliate, da scartare o da aggiustare.

Oggi parlando di psichiatria o di disabilità fisiche questo assioma può apparire scontato. «Da vicino nessuno è normale», cantava Caetano Veloso, ma se allarghiamo il concetto agli studenti, a chi commette reati, agli anziani, ai tossicodipendenti, ai senza fissa dimora ci accorgiamo che la questione si fa spinosa. Capita così che le risorse pubbliche e la professionalità degli “operatori” siano dedicate a persone che la maggioranza reputa pericolose, fastidiose o incompatibili, e che ciò venga fatto dedicandoci lo stesso impegno e la stessa professionalità con cui ci si occupa dei bambini, dei giovani o delle vittime di violenza. Tutte queste persone hanno in comune di essere tasselli della comunità in cui tutti noi viviamo, occuparci di loro significa occuparci di noi, dei nostri spazi e del nostro futuro. Ci accorgiamo così che quello dell’operatore sociale è un lavoro prettamente politico. Aiutare un anziano, accudire un bambino, sostenere una persona con problemi fisici, supportare un comitato, ristorare un tossicodipendente, accogliere persone vittime di traumi o guerre possono non essere gesti fini a se stessi. In una società veloce, selettiva e performativa come quella in cui viviamo rischiamo di diventare ognuno il fastidio di qualcun’altro, ognuno la minoranza statistica di una qualche maggioranza, ognuno in qualche modo motivo di timore per altri.

Dedicare ogni sforzo possibile nell’aiutare ogni singola persona è fondamentale ma al contempo è necessario mettere in relazione i tasselli per costruire insieme una comunità capace di accogliere, capire e non temere. Parlare di “operatori sociali” oggi significa parlare di questo, di un lavoro ad alto contenuto tecnologico e cognitivo che si articola in un’ampia gamma di interventi e che richiede competenze specifiche in numerosi campi del sapere umano. Agli “operatori sociali” e alle loro organizzazioni stiamo oggi affidando un mandato importante nella costruzione del nostro futuro sociale e produttivo, gli stiamo chiedendo di affrontare sfide difficile e dando responsabilità considerevoli nel campo della sicurezza, della coesione e del captale sociale. Non dobbiamo fare l’errore di confonderli con gli altrettanto importanti volontari che hanno altro ruolo, altre competenze e altre motivazioni.

Testo di Max Calesini