I Celti e il gene della fila indiana

C’è qualcosa di maniacale nel modo in cui i britannici rispettano il principio della fila. È una delle grandi differenze tra Italia ed Europa, come dimostrò un video che fece il giro di tutte le scuole, in cui piccoli cerchi con la bandiera dell’UE e il tricolore mostravano le diversità di comportamento esistenti tra “noi” e “loro”. Se da noi la logica della catena umana si rispetta a stento alla vigilia di Capodanno, a suon di a-e-i-o-u-ipsilon, qui accompagna naturalmente le dinamiche da sportello pubblico come qualcosa di più di un semplice obbligo: è più l’affermazione di civiltà avanzata (o aliena, non so). Vivere in Inghilterra mi ha fatto capire che c’è una differenza fondamentale tra l’“essere in fila” – un imperativo morale, probabilmente ereditato dai popoli celtici – e il “fare la fila” italiano, dove a sbuffi e sospiri d’impazienza si rimedia con lo sgomito selvaggio (vedi situazione tipica, il buffet matrimoniale).

Credo sia una sezione fondamentale del loro codice etico, come per noi il pecorino nella carbonara. Ho compreso questa verità dell’etica inglese quando mi sono trovata di fronte un fenomeno sconvolgente: non una fila comune alle poste, ma l’inedito battaglione d’ingresso che mi si è composto di fronte agli occhi, all’arrivo del più comune mezzo pubblico, l’autobus. A bocca spalancata, dall’alto del mio sedile al secondo piano del bus, ho assistito infatti al comporsi ordinato di un serpente di teste che sul marciapiede si snodava sotto una pioggia battente. Non solo: una signora anziana e una ragazzina in cappotto rosso si scambiavano cenni con la testa, lottando per cedere all’altra il posto – la ragazzina che infine vinceva, imponendo inchini più rigorosi all’anziana Madam a labbra strette e sguardo impettito.

Che strano mondo, che meravigliosa compostezza, ho pensato. Fino a che, qualche giorno dopo, non mi sono trovata a correre verso la fermata, il bus in sosta. Una volta arrivata lì davanti, però, la porta si era già chiusa: l’autista stava muovendo il suo colosso un po’ più in là, verso il semaforo rosso. Non mi sono arresa: ho continuato a inseguire il bus, bussando ripetutamente sulla porta – l’autista impassibile; mi sono decisa, dunque, a cambiare tattica, sbracciandomi sull’asfalto come a una lezione di aerobica. Per parecchi secondi nulla: il guidatore continuava stordito a guardare la strada, attendendo che scattasse il verde. Poi, finalmente, mi ha notato: ho sorriso sollevata, indicando l’interno del bus per chiedergli di entrare, senza immaginare nemmeno quale sarebbe stata la sua reazione.

Il tizio, infatti, ha risposto scuotendo infastidito la testa, lasciandomi dietro la porta blindata come se gli avessi appena citofonato a casa per leggere insieme gli Atti degli Apostoli secondo una prospettiva luterano-buddista. Ho spalancato le braccia incredula, strillando «C’mon» mentre il vento mi perquisiva dentro la camicia, mi sbatteva il cappotto intorno. Ho aspettato che accadesse qualcosa – qualcosa di natalizio, empatico o umano – ma, quando il semaforo ha cambiato colore, il bus ha semplicemente imboccato la curva, lasciandomi con la bocca piena di capelli a gridare per strada delle paroline dolci che hanno fatto girare parecchi passanti. L’etica e la civiltà, in definitiva, rimangono sempre qualcosa di relativo. E forse il fantasma del Natale passato si prenderà la briga di ricordarlo al nostro autista.

Testo di Ivana Finocchiaro

Foto di Xiaojun Deng