Dai rifiuti ai robot

Foto di Francesco Capponi

Dai rifiuti ai robot

I pomeriggi del laboratorio di robotologia organizzato dall'associazione Fiorivano le Viole
Ad aprile nello spazio dell’ex-Combo, locale adottato dall’associazione Fiorivano le Viole come scenario di esposizioni e attività di vario tipo, si sono svolti gli incontri del laboratorio di robotologia tenuti da Fabrizio Bellini.

Lì, per diversi pomeriggi, un enorme tavolo da lavoro è stato ricoperto da rifiuti e scarti di qualsiasi genere – da pezzi di vecchi cellulari a telecomandi dissezionati, da bulloni a viti di ogni dimensione, dai bottoni ai cavi elettrici. Intorno a quella superficie caotica, un gruppo di veterani e principianti, armati di colla, si trovava a incrociare le braccia nella ricerca paziente del tassello giusto per il proprio robot. Nessuno riusciva in un risultato identico: il pezzo risultava sempre diverso, qualunque cosa esso rappresentasse. Da quel cumulo indistinto di ferro e plastica, si sono materializzati draghi sputafuoco, clown dalle chiome bizzarre, omini che suonano chitarre rievocate da una semplice chiave metallica.

I robot nascevano anche grazie al confronto fra i partecipanti: scavando nel mucchio, infatti, c’era chi improvvisamente scovava quel pezzo che il suo vicino cercava da almeno dieci minuti; a turno, poi, tutti mostravano spontaneamente agli altri la propria creazione, accogliendo suggerimenti per rendere le sue sembianze sempre più verosimili.
Fabrizio Bellini, autodidatta, ha iniziato ad applicarsi alla robotologia qualche anno fa, proprio nella Napoli che, dice, di «monnezza, purtroppo, ne vede parecchia». Mentre incolla due perline di legno a una testa-spinotto, Fabrizio racconta cosa pensa di questo tipo di attività: «Secondo me permette agli adulti di recuperare la dimensione tipica dell’infanzia, nonché di creare socialità, un gioco collettivo a cui chiunque può prendere parte».
Quando gli chiedi in che modo, secondo la sua ottica, i prodotti di quei laboratori interagiscono nella storia delle persone che vi partecipano, Fabrizio risponde: «Spero che, attraverso la libera manipolazione della materia, le persone arrivino a un’interpretazione non funzionale delle cose, a riscoprire il piacere che può dare il superfluo, a trovare una via di fuga dalla vita schematizzata».
Foto di Fabrizio Bellini

Foto di Fabrizio Bellini

In effetti, guardandosi attorno e ascoltando una professoressa delle scuole medie, una sarta e una studentessa che discutono animatamente su come rivestire un pannello con le sculture di piccoli robot circensi, si capisce che l’obiettivo è stato raggiunto. Di fronte a quel tavolo simile a uno scenario bellico, torna alla mente il lavoro di quei sei ragazzi in Siria che, qualche tempo fa, hanno creato il più lungo murales mai realizzato unicamente con materiale di riciclo (in quel caso, i detriti generati dai bombardamenti). Alla domanda sulle analogie possibili tra quel murales e la poetica della robotologia, Fabrizio risponde così: «Assolutamente. Anche qui c’è una guerra in atto: il mucchio dei pezzi che vedi sul tavolo sono le macerie della nostra società, ed è solo tramite il tuo contributo che è possibile rianimarli e dar loro nuova vita. Esattamente come lo fa ciascuno di noi, ricostruendosi imperfetto e difettoso, sporco e asimmetrico, dai detriti della propria esistenza».

Insomma, di cosa c’è bisogno per poter costruire un robot? «Sono necessarie soltanto due cose», afferma Fabrizio, «rifiuti e spirito santo. I rifiuti ce li mette la società capitalistica, lo spirito santo ce lo metti tu». «E la colla», aggiunge dopo qualche secondo di silenzio. «Senza la colla non si fa niente…»

Testo di Ivana Finocchiaro