Benvenuti a Perugia

Foto di Graham Holliday

Benvenuti a Perugia

Abbiamo cercato di capire come funziona l'accoglienza ai migranti nella nostra città. Ecco il resoconto che ne è venuto fuori

L’ultima volta è stata all’inizio di maggio. Era tempo di gite scolastiche, e allora sono dovuti andare ad affittare cinque pullman in Romania, con autista e tutto. A Ponte Felcino sono arrivati in centotrenta, scortati dalla polizia, come sempre. Centotrenta migranti, in una volta sola. Quasi tutti subsahariani. Nigeriani, senegalesi, gambiani. Li hanno sistemati all’ostello, negli appartamenti, in tutta la provincia di Perugia. Qualcuno se ne è andato prima che la polizia tornasse per portarli in Questura a fare l’identificazione, ma solo tre o quattro. I subsahariani di solito non se ne vanno. Quelli sono i siriani, i somali, gli eritrei. In un anno e mezzo nessuno di loro si è mai fermato nelle strutture dell’Arci. Giungono in Italia con le idee molto chiare, sanno già benissimo dove vogliono arrivare. La Francia, la Germania, l’Europa più ricca, o quella dove vivono già da tempo i loro familiari. Non vogliono farsi identificare, perché a quel punto il Regolamento di Dublino gli imporrebbe di chiedere asilo in Italia, e loro in Italia non hanno intenzione di rimanere. E allora scappano. Salgono sui treni, verso Milano.

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I siriani a Milano ci vanno anche in taxi. I siriani sono diversi dagli altri. Hanno i soldi. Professionisti, istruiti, benestanti. Arrivano con i loro vestiti, il loro iPad, parlano le lingue. Ce ne sono anche di anziani, di ottant’anni e passa. Gli scafisti non gli torcono un capello, perché evidentemente li pagano meglio. Non come gli africani. Quelli li trattano come bestie, li spogliano del poco che hanno. Chi viene dal Gambia, dal Senegal, dalla Nigeria, è miserabile due volte. In fuga, e quasi sempre senza un altro obiettivo che non sia quello: scappare. Sono motivatissimi, pieni di energie e voglia di fare. E sono quelli che a Perugia si fermano. Non hanno programmi, non hanno parenti da raggiungere, spesso Perugia gli va bene. Si fanno portare in Questura, si fanno fotografare, si fanno prendere le impronte digitali. E fanno richiesta d’asilo. Gli altri, i siriani, i somali e gli eritrei, si fiondano a Milano, dove li aspettano altri cattivi pastori, altri trafficanti che li condurranno in un modo o nell’altro oltre il confine. Ventimiglia, i monti, da qualche parte. Ma queste sono storie che i ragazzi di Arci Solidarietà non conoscono, o conoscono solo di rimando. Una volta che se la vedono sfilare sotto gli occhi, di questa gente perdono le tracce. Quella che conoscono bene è la filiera a monte, le prime tappe della fuga, quelle prima del mare, prima di Perugia. I racconti sono tanti.

Foto di UNHCR Campo profughi di Za'atari (Giordania)

Foto di UNHCR
Campo profughi di Za’atari (Giordania)

Il progetto Emergenza funziona così. I migranti arrivano all’ostello di Ponte Felcino scortati dalla polizia, che nel giro di poche ore fa ritorno e li porta in Questura, per l’identificazione. Quelli che nel frattempo non se ne sono andati, quelli che fanno regolare richiesta d’asilo, si fermano all’ostello per qualche settimana, il tempo di trovargli una sistemazione migliore. Appartamenti sparsi per la città, quindi, un casale attrezzato in campagna, case in cui vivere insieme, a gruppi di cinque o sei, in autonomia pressoché totale. Gli operatori dell’Arci si fanno vivi due o tre volte alla settimana, per monitorare. Sono alloggi in affitto, pagato dall’Arci, da privato a privato, senza alcuna facilitazione, come detta il mercato. A Ponte Felcino, in media, gli ospiti oscillano tra i cinquanta e gli ottanta. All’ostello Spagnoli di Pian di Massiano, invece, i migranti sono una trentina. Venti pakistani, che ormai lì hanno piantato le tende, e dieci nigeriani in attesa di altre destinazioni. A Pian di Massiano ci sono anche altri tipi di ospiti, dai turisti a quelli piazzati lì dal Comune perché non possono permettersi una casa. Italianissimi. Coi pakistani, dicono all’Arci, sono tutti più tolleranti. Li vedono giocare a cricket nei parchi vicini, gli sembrano meno migranti degli altri migranti. Anzi, meno immigrati. Meno diversi.

Chi rientra nel progetto SPRAR, teoricamente, è un privilegiato. Ha diritto a vivere in luoghi di piccole dimensioni, a seguire dei corsi d’italiano, a essere supportato quotidianamente dagli operatori nell’accesso ai servizi. Per loro esistono dei fondi ad hoc, regolati a livello nazionale, che servono per l’integrazione lavorativa e la formazione, dalle borse lavoro in là. L’Emergenza segue regole diverse. Che cambiano città per città. A Perugia il bando di fatto equipara i due trattamenti. Anche per i migranti dei barconi gli standard di base sono quelli là: appartamenti, corsi di italiano, supporto, giorno per giorno, nell’accesso ai servizi. Per l’inserimento lavorativo e la formazione è più complicato. Ma ci si prova lo stesso. Vengono incoraggiati, indirizzati, si fa un tentativo con Garanzia Giovani. Cose così.

Progetto EMERGENZA

Il progetto Emergenza riguarda i nuovi sbarchi dal Mediterraneo. Viene gestito su tutto il territorio nazionale dalle varie Prefetture, che indicono un bando. Per la provincia di Perugia è stato vinto da un’associazione temporanea di scopo costituita da Arci Solidarietà, cooperativa Perusia, Cidis, Caritas e cooperativa Il Cerchio. Nella città di Perugia operano esclusivamente Arci Solidarietà e Perusia. Al momento nelle loro strutture sono ospitate più di trecento persone. Dal 14 gennaio 2014 a oggi sono transitate più di mille persone.

Progetto SPRAR

Il progetto SPRAR (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) riguarda tutti i richiedenti asilo. È gestito dal Servizio Centrale, un’emanazione diretta del ministero dell’Interno affidata all’Anci. A livello periferico il progetto deve essere gestito da un’associazione di diversi soggetti con un ente locale come capofila. A Perugia il capofila è il Comune. Poi ci sono Arci Solidarietà e cooperativa Perusia. Al momento sono ospitate nelle strutture messe a disposizione da Arci e Perusia circa settanta persone.

Questi ragazzi hanno per lo più tra i diciotto e i ventotto anni. Nove su dieci sono uomini. La loro permanenza nelle strutture dell’Arci è strettamente collegata all’iter della loro richiesta d’asilo. Fino a qualche tempo fa per essere valutati dalla commissione territoriale, a Roma, gli serviva grossomodo un anno. Dal 18 marzo è attiva la commissione territoriale di Perugia, vedremo se le pratiche si sveltiranno un po’. E comunque la risposta della commissione è quasi sempre negativa. In questi tre mesi, per dire, sono state accolte tre richieste d’asilo su una ventina. Chi dimostra d’essere un perseguitato politico può avere l’asilo politico, della durata di cinque anni e rinnovabile. Chi viene da zone di guerra, o comunque instabili, il permesso di soggiorno per protezione sussidiaria: pure questo dura cinque anni ed è rinnovabile. Chi è molto giovane, o incinta, o malato, un permesso per motivi umanitari della durata massima di due anni. Nessuno deve azzardarsi a dire alla commissione di essere scappato perché moriva di fame. Non lo farebbero nemmeno parlare. I motivi economici non sono buoni motivi, per essere accolti in Italia. La domanda sarebbe respinta all’istante. E comunque, per tutti quelli che si vedono opporre un rifiuto, c’è modo di fare ricorso in sede civile. E lì, pressoché sempre, il verdetto viene ribaltato già in primo grado. Il tempo che trascorrono nelle strutture dell’Arci o in quelle della Perusia, insomma, può variare anche di molto. In linea di massima dal passaggio davanti alla commissione possono passare alcuni mesi, massimo un anno. L’auspicio sarebbe rendere i migranti autonomi il prima possibile. È difficile, ma non impossibile.

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E i soldi? La gente non sopporta di vederli in giro coi telefonini e con le cuffiette alle orecchie. Se non sembrano degli straccioni allora non si meritano niente. Funziona così. La realtà è che di denaro ne vedono ben poco. Trenta euro alla settimana per la spesa di base, cibo e sapone. Settantacinque euro al mese per tutto il resto. I vestiti, il cellulare, le schede telefoniche. Le cuffiette. Li sanno spendere. Quanto al lavoro, per i primi sei mesi dopo la richiesta d’asilo non potrebbero nemmeno se volessero. Vietato dalla legge. E allora provano a imparare qualcosa. L’italiano, prima di tutto. L’Arci organizza dei corsi alla Casa dell’Associazionismo e alla Biblioteca delle Nuvole, e poi a Ellera, con insegnanti professionisti, pagati regolarmente. E poi ci sono i progetti di volontariato. Arci, per esempio, ha partecipato al progetto Adotta un parco del Comune di Perugia, e s’è guadagnata la manutenzione di una decina di aree verdi in tutta la città. Ci pensano i migranti. Gratis, perché il bando è a budget zero. Ma è un modo per stare in moto, e fa curriculum.

Poi c’è l’aspetto sanitario. Il problema è giusto porselo. Quando arrivano a Perugia ai ragazzi han poco più che dato un’occhiata alla gola. Qui vengono subito sottoposti a uno screening in una struttura dell’Asl in via XIV Settembre. Si valuta lo stato di salute generale, si cercano eventuali malattie infettive. La famigerata scabbia, pure. Qualche caso sospetto ogni tanto viene fuori, qualcuno viene ricoverato in ospedale per accertamenti. Ma alla fine niente di niente, spiegano all’Arci. Magari si teme la scabbia o la tbc, e invece è qualcosa di peggio, di autoimmune. Nulla di contagioso. Nessuna epidemia pronta a minacciarci.

E loro, loro hanno voglia e paura di parlare. Dipende. A fare due conti, oggi come oggi a Perugia sono in tutto tra i trecentocinquanta e i quattrocento. Tra Emergenza e SPRAR, tra Arci e Perusia. E ognuno ha la sua voglia e la sua paura. Mohamed, ivoriano, ventotto anni, parla un italiano svelto e generoso. È passato dalla commissione a inizio giugno, e adesso aspetta la risposta. Sarà positiva, dice, perché ha fede in Dio, e cioè in Allah, e Allah lo aiuterà. Sono quasi tutti musulmani, questi migranti. Mohamed va in moschea in via Settevalli, e insieme a lui anche Yusuf, Mamadou e Moussa. La religione è importante, ma di rapporti con gli altri fedeli se ne stringono pochi. “Avevo un amico marocchino, in Costa d’Avorio. Qui no”, spiega. Di amici italiani, poi, perugini, non se ne parla proprio. Quando viveva a Castel del Piano, dice, ne aveva trovato uno. Vero. Riccardo, che poi se n’è andato in Spagna. Non è che gli vada tanto a genio, Perugia, a Mohamed. Finite le lezioni di italiano non sa cosa fare. Segue un corso di teatro, sta provando a prendere la licenza media. Ma vorrebbe di più. Vorrebbe una città più grande. Milano, magari. “Resto di sicuro in Italia. Mi piace molto. Anche se finora l’ho conosciuta solo sui libri”. Appena arrivano i documenti prende e riparte verso Nord, pure lui. A rifarsi una vita, daccapo. Di quella vecchia non gli è rimasto niente.

Gli altri hanno le idee meno chiare. Yusuf viene dal Gambia. Ha diciotto anni, una voce sottile, sorride e non pensa al futuro. Vive in via XX Settembre, è a Perugia da un anno, prima s’è fatto sei mesi a Siracusa. “Bellissima”. Mamadou, maliano, ha occhi liquidi e guardinghi. È alto, nero nero, ha poco più di vent’anni. Vive alla Pallotta, e tutto dipende dal lavoro, dice. Se ne trova uno a Perugia, rimane. Altrimenti ripartirà anche lui. Quanto agli amici, stesso discorso degli altri: gli italiani si fanno i fatti loro. Il suo tempo, intanto, lo passa con gente che è arrivata qua dal Mali anni fa. Dieci, dodici. E poi c’è Moussa. “Lui è famoso”, ride Mohamed. Famoso perché forse è il più integrato di tutti. Vent’anni, maliano, ormai fa parte a tutti gli effetti dell’associazione Fiorivano le Viole, che negli ultimi tempi ha soffiato il suo vento buono su tutto il quartiere. Nei giorni di Alchemika, a giugno, se ne andava in giro con una macchina fotografica presa a prestito, e se potesse non la mollerebbe neanche per un minuto. Perugia è bella, per lui. I perugini anche. Stesse a lui decidere, da qui non se ne andrebbe. Moussa e Mohamed, seduti ai due capi del tavolo. Due sguardi opposti sulla nostra città. E poi, se solo non fossimo in pieno Ramadan, chissà in quanti altri sguardi ci si potrebbe imbattere, alla Casa dell’Associazionismo, in queste mattine di inizio estate. Il ghanese Ibrahim, per esempio, è in partenza per Cesenatico, va da suo zio, lui dice “my brother” ma in realtà è un suo lontano zio, che gli ha trovato un lavoro. È triste, ad andare via. Le ragazze dell’Arci lo salutano sospirando. Lui se ne sta ritto, con le sue grandi cuffie bianche calate sul collo, a balbettare in un inglese incerto. Balbetta davvero, letteralmente. Balbettava da bambino, poi crescendo gli era passata. Lo stress della traversata del Mediterraneo l’ha fatto ricominciare. Ma è giovane, ha pure lui vent’anni, magari andrà dallo psicologo, dice, per farsi dare una mano a rimettere a bada la lingua. Intanto si trascina dietro un trolley cigolante e riprende il suo viaggio. Saluta Perugia, saluta tutti. Il suo letto non rimarrà vuoto troppo a lungo.

L’accoglienza ai migranti, in Italia, è qualcosa di incredibilmente complicato. Le norme sono tante e spesso confuse, lacunose. Lavorare in questo settore – gli operatori di Arci Solidarietà impegnati nei progetti Emergenza e Sprar sono sedici - è gratificante e impegnativo. Ma le energie in campo non sono mai abbastanza. Per cui ogni contributo volontario dei cittadini è ben accetto. Chiunque fosse interessato a mettere le proprie idee, il proprio tempo e le proprie energie a disposizione di questi ragazzi può contattare Arci Solidarietà. Telefono: 075 9070877 – 075 5721441

Testo di Giovanni Dozzini